È ambizioso Francesco Delzio. Ne “L’era del lavoro libero” il manager-professore (alla Luiss Guido Carli e alla Scuola nazionale dell’amministrazione, membro del cda di Anpal servizi) racconta come sarà il lavoro nel 2050. E c’è da sperare che la sua visione sia centrata. Perché si tratterebbe di un mondo niente male: l’intelligenza artificiale come protesi dei nostri cervelli che ci libera di una serie di noiose incombenze, lavoro manuale quasi scomparso perché “nelle fabbriche gli operai sono sostituiti dalle macchine, i cui livelli di attività sono monitorati da pochi uomini in camici bianchi”, niente più agricoltori con schiena piegata nei campi perché “la semina e la racconta saranno quasi completamente automatizzate salvo che in qualche paesino del Mezzogiorno: al posto dei contadini lavoreranno le diserbatrici automatiche, i droni raccoglitori di frutta, i potatori automatici dei vigneti”. Certo il lavoro sarà inevitabilmente di meno, ammette Delzio, ma la settimana lavorativa sarà stabilmente di 32 ore al posto delle 40 attuali. Inoltre, grazie allo smart working e a nuove modalità organizzative, il lavoro “d’ufficio” si trasformerà in un’attività che poco ha a che fare con il sacrificio e la fatica e molto, invece, con la passione e la realizzazione personale.
Il problema è: come ci arriviamo a questo nuovo “lavoro libero” del 2050? La parte più originale del lavoro di Delzio sta proprio qui. L’autore tratteggia il punto d’arrivo ma anche quello di partenza. E non è un punto privo di criticità. Le nuove tecnologie e la competizione globale delle imprese hanno reso obsoleta l’organizzazione del lavoro fordista in cui il dipendente era una specie di protesi della macchina, pagata in base al tempo. Ora c’è bisogno di un dipendente ingaggiato, motivato, pagato in base ai risultati. E questo è necessario non soltanto perché funzionale allo smart working ma anche e soprattutto perché serve all’impresa per essere più produttiva e quindi competitiva sui mercati. Come si misurano questi risultati? La risposta uguale per tutti non esiste perché ogni impresa produce risultati diversi e l’unità di misura non può essere sempre la stessa. Su questa trasformazione epocale si innesta oggi una fase congiunturale che complica le cose non poco: l’alta inflazione che riduce salari reali, quelli italiani, cresciuti già meno di tutti gli altri negli ultimi dieci anni.
Eccoci allora di nuovo al cuore del problema: come si collega questo mondo in cui ci troviamo e quello potenziale del “lavoro libero” nel 2050? Con lucidità Delzio constata l’immobilità della politica e delle parti sociali, come paralizzate da una sfida troppo grande, intente a guardare non al 2050 ma al 2024, se va bene. E mette in campo delle idee. Primo e più ambizioso esempio: attuare un patto tra parti sociali che abbia due obiettivi. Il primo: definire come in Germania una una tantum per il 2023 da aggiungere agli stipendi erosi dall’inflazione in modo da tornare dal 2024-2025 alla normalità della contrattazione. Il secondo: incentivare non solo a parole la contrattazione aziendale che oggi tocca meno del 20% delle aziende. Come dare torto a Delzio? D’altra parte se le parti sociali non sono in grado di affrontare la congiuntura generata dal caro-prezzi perché dovrebbero essere all’altezza di gestire cambiamenti epocali e strutturali? Da segnalare, tra le proposte dell’autore, anche quella di un “Fondo futuro”, un fondo di garanzia pubblico per spingere le banche a finanziare i giovani senza particolari garanzie familiari alle spalle. “Il fondo – esemplifica Delzio – costerebbe ogni anno non più di 500 milioni di euro, la previsione è basata sul presupposto che usufruiscano del fondo ogni anno circa 50 mila giovani poco abbienti”.
Alla fine si può dire che anche per Delzio il singolo lavoratore non può essere lasciato solo in mezzo al guado di una trasformazione che sta sfumando i confini tra lavoro dipendente e autonomo. Per questo servirebbero parti sociali – in rappresentanza delle imprese come dei lavoratori – con una visione del mondo e un pensiero collettivo. Capaci di servire i propri associati e non solo se stesse. Ci sarà consentito in questo momento essere un po’ meno ottimisti dell’autore. L’ultimo colpo battuto è stato il Patto della Fabbrica, nel 2018. Poi più nulla. Con questi cambiamenti in atto 5 anni sono un’eternità. Per non parlare della discussione sulla rappresentanza e sulla sua misurazione, l’accordo Confindustria-sindacati è del 2014: mai attuato. Per rendere la rappresentanza sociale all’altezza delle enormi trasformazioni in atto servono coraggio e idee. E non verrà l’intelligenza artificiale a fornirceli.