Da Corriere della sera Blog 23 Luglio
La recensione di Alessandro Vitale al mio volume, “Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo dis(ordine) mondiale” (Rubbettino Editore), ora comparsa sul sito della meritoria Associazione italiana Studi di Storia dell’Europa Orientale, era già stata pubblicata sul periodico on line «Storia in Network». In quella sede il resoconto di Vitale era stato intitolato, Il revanscismo russo tra crisi ucraina e pamphlet di parte. Titolo molto azzeccato per un contributo che sostanzialmente sostiene: 1. che da più di un decennio la Federazione Russa è impegnata in una politica espansionistica e aggressiva simile a quella che gli guadagnò durante la Cold War il titolo di «Impero del Male». 2. che il mio libro null’altro è che un libello partigiano infeudato alla propaganda del putinismo radicale. Vitale è studioso scientificamente maturo, consapevole di quello che scrive e convinto delle sue idee, per questa ragione in questa mia breve nota non proverò certo a fargli mutare opinione. Ma, poiché il testo della sua recensione contiene gravi inesattezze, mi pare opportuno rettificarle soprattutto a beneficio del pubblico dei non addetti ai lavori.
Lasciamo perdere la stravagante e tendenziosa trovata storiografica di radicare l’identità nazionale ucraina (concetto questo che alcuni storici e analisti, come Samuel Phillips Huntington, Andrew Wilson, Timothy Snyder, Jack Foust Matlock trovano discutibile in re) nella memoria storica della Confederazione polacco-lituana in modo di ancorarla al risorgente revanscismo ucraino e a una forte animosità russofoba. Il grande organismo statale comprensivo di Polonia, Lituania, Bielorussia, gran parte del territorio della Lettonia e dell’Ucraina e di alcune parti del territorio russo, costituì, infatti, tra XVI E XVII secolo una delle più pericolose minacce per la Russia. La tesi di Vitale non trova però nessun riscontro, come Vittorio Strada ha recentemente ricordato, nell’analisi del primo nazionalismo ucraino, anteriore alla deriva xenofoba novecentesca di quel movimento, questa sì ferocemente anti-russa ma parimenti anti-polacca, anti-ebraica, anti-slovacca. Lasciamo perdere il tentativo prima di negare e poi di giustificare il colpo di Stato di Majdan Nezaležnosti, utilizzando le teorie del giurista Bartolomeo da Sassoferato (sec. XIV!), ignorando o facendo finta di ignorare la letteratura scientifica sulle cosiddette «Washington “Soft” Revolutions», che ha messo bene in evidenza la costante presenza di una forte ingerenza straniera in molte delle cosiddette «rivoluzioni colorate» sviluppatesi nello spazio post-sovietico. Lasciamo perdere, perfino, la tendenziosa sottovalutazione del ruolo della componente neo-nazista nelle recenti vicende ucraine, prima come force de frappe durante i giorni dell’Euromaidan, poi come consistente presenza militare nel conflitto del Donbas dove foreign fighters reclutati tra la sempre verdeggiante internazionale fascista europea combattono, regolarmente inquadrati nella Guardia nazionale di Kiev, in una guerra civile che è ormai divenuta, per diretta responsabilità del governo di Arsenij Petrovyč Jacenjuk e particolarmente per quella del ministro dell’Interno, Arsen Avakov, una spietata «guerra contro i civili», tra il silenzio assordante dei media occidentali e degli esponenti europei dell’ipocrita intellighenzia mainstream.
Lasciamo perdere, ancora, la bizzarra pretesa di reclamare dalla Federazione Russa la rinuncia al suo status di Grande Potenza eurasiatica, conformemente al vecchio progetto formulato da Zbigniew Brzezinski fin dal 1997, che dovrebbe portarla a rinunciare spensieratamente alla sua storica area d’influenza in Asia centrale, ad accettare a cuor leggero la perdita dell’accesso ai «mari caldi» per la sua flotta militare e magari a dimostrare una supina accondiscendenza per la possibilità che un giorno il porto di Sebastopoli, che per Mosca ha la stessa importanza strategica che Pearl Harbor ha per Washington, ospiti una base Nato. Pretesa che avrebbe qualche possibilità di essere presa sul serio, solo se Vitale rivolgesse questa stessa richiesta anche a Stati Uniti e Cina, due Superpotenze, sulla cui natura imperiale non è dato di dubitare, invitandoli a dismettere la dottrina dei Core Interests e a rinunciare alla loro egemonia su Filippine, Corea del Sud, Giappone, Tibet, Mongolia, Sinkiang, Honk Kong, Macao. Mettiamo da parte, infine, la violenta polemica contro gli «oligarchi» provenienti dalla stagione sovietica responsabili del degrado morale e materiale dell’Ucraina. Una polemica questa, assolutamente condivisibile, ma che per essere credibile dovrebbe anche includere la lobby affaristica che attornia l’attuale Presidente della Repubblica Ucraina: il magnate Petro Oleksijovyč Porošenko, colui che fu definito nel maggio 2006 dal Dipartimento di Stato «our insider Ukraine» ovvero «la nostra talpa in Ucraina».
Sforziamoci di non considerare tutto questo e concentriamoci invece sulla polpa e il midollo della questione. Vitale è persuaso che la risposta politica e militare russa alla crisi ucraina non è stata di natura «reattiva» ma «assertiva» e che il poderoso allargamento della Nato verso oriente ha obbedito soltanto a una logica difensiva, perché Mosca sarebbe da molti anni orientata a recuperare integralmente la sua dimensione imperiale, oggi a danno della sovranità dell’Ucraina, domani forse, chi può dirlo?, minacciando quella d Finlandia, Polonia, Repubbliche Baltiche, Svezia, Norvegia. Che questa persuasione non corrisponda al vero, nonostante le colte citazioni provenienti da Max Weber e Hannah Arendt con cui Vitale infiocchetta le sue argomentazioni, è tesi largamente condivisa non soltanto da una porzione non minoritaria dell’informazione internazionale, da un analista rigoroso, come l’ambasciatore Sergio Romano, ma anche dall’autorevole rivista «Foreign Affairs», da molta ritenuta la voce ufficiosa del Dipartimento Stato. E allora lasciamo da parte i teoremi politologici e diamo la parola ai fatti della storia sperando che essi costituiscano la pietra tombale di una discussione che non ho, in ogni caso, nessuna voglia di continuare ulteriormente.
Nel marzo 2004 l’Unione Europea festeggiò l’allargamento della sua sfera a ben dieci Nazioni, di cui quattro (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Ungheria) ex membri del Patto di Varsavia e tre (Estonia, Lituania, Lettonia) parte integrante dell’Urss fino al 1991. Questa espansione dell’Unione Europea non avrebbe avuto nulla di irrituale, se tra 1999 e 2004 questi stessi Stati, con l’aggiunta di Bulgaria e Romania non fossero divenuti membri della Nato, un’alleanza, che in ossequio alla sua stessa primitiva ragione sociale avrebbe dovuto dissolversi dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Evidentemente Bill Clinton e George Walker Bush avevano deciso di ridurre a carta straccia la promessa fatta dal George Herbert Walker Bush a Michail Gorbačëv, quando lo persuase a consentire che la Germania unificata entrasse a far parte della Nato assicurandogli, come contropartita, che mai e in nessun caso la coalizione atlantica avrebbe esteso la sua presenza oltre la vecchia «cortina di ferro».
Quando cadde il muro di Berlino e l’Europa orientale cominciò a emanciparsi dal regime comunista, il primo Bush incontrò, infatti, Gorbačëv nel summit di Malta (2-3 dicembre 1989) e i due statisti si accordarono per rilasciare un comunicato congiunto della massima importanza dove si concordava sul fatto che l’Unione Sovietica si obbligava a rinunciare a ogni intervento per sostenere gli agonizzanti sistemi comunisti dell’est, mentre gli Stati Uniti si impegnavano a non ricavare alcun vantaggio strategico dagli sviluppi politici conseguenti alla decisione del Cremlino. Si trattava di un gentleman’s agreement, del quale non esiste una versione scritta, ma che fu poi confermato dalle dichiarazioni del Primo ministro inglese, del Cancelliere tedesco, dal Presidente francese e dalla testimonianza dell’allora ambasciatore statunitense Mosca, Jack Foust Matlock. Molto recentemente, dopo un estenuante balletto di ammissioni e di ritrattazioni, anche lo stesso Gorbačëv ha accreditato questa versione. Rimproverandosi tardivamente per la sua passata ingenuità, l’ultimo Segretario generale del Pcus ha infatti espresso il rammarico che quell’impegno fosse restato un semplice accordo verbale senza trasformarsi in un formale trattato dove si sarebbero potute recepire le assicurazioni fornitegli allora dal Segretario di Stato James Baker, secondo le quali «la giurisdizione della Nato non si sarebbe mossa di un pollice verso oriente».
Come tutte le intese sulla parola, l’accordo stipulato nella piccola isola del Mediterraneo può essere sottoposto a molteplici interpretazioni ma non azzerato nella sua sostanza. Lo spirito del compromesso tra Urss e Occidente era tutto nelle parole pronunciate da Baker: da una parte, la Russia rinunciava alla sua egemonia sull’Europa orientale e, dall’altra, gli Stati Uniti non avrebbero in alcun modo approfittato di quella concessione per allargare la loro influenza su quella regione. In un crescendo rossiniano, lo spirito di Malta fu però ancora più profondamente tradito dopo il 2004 con le pressioni americane per l’ingresso dell’Ucraina e della Georgia nella Nato, fatte durante il vertice atlantico di Bucarest dell’aprile 2008, alle quali avrebbe fatto seguito la guerra russo-georgiana. Alcune Nazioni europee si sforzarono di attenuare il clima di crescente tensione. Nella capitale romena, Berlino arrivò a ritardare la discussione sull’ingresso di Ucraina e Georgia nell’Alleanza Atlantica e più tardi, a Tiblisi, Parigi, dopo l’inizio del conflitto georgiano, riuscì a negoziare un armistizio che permise a Mosca di conservare il controllo dell’Ossezia meridionale e dell’Abacsia. Nulla e nessuno poterono, però, impedire l’adesione al Patto Atlantico di Albania e Croazia che ebbe luogo nel 2009 sotto la presidenza di Barack Hussein Obama, né bloccare il negoziato finalizzato a integrare nell’alleanza Georgia e Moldavia.
L’ascesa di Obama alla Casa Bianca e le iniziali, concilianti prese di posizioni di Hillary Clinton parvero, infatti, creare un clima meno conflittuale con la Federazione Russa. Si trattò, però, di una semplice illusione. Fedele al programma del suo predecessore Obama continuò a favorire il riarmo di Polonia, Repubblica Ceca, Romania e iniziò a premere su Bruxelles per ottenere l’inclusione dell’Ucraina nell’Unione Europea, alla quale secondo un canovaccio già visto avrebbe, dovuto far seguito, quasi automaticamente, l’ingresso di Kiev nella Nato. Fallito questo obiettivo, per l’appoggio di Mosca alla rivolta nel Donbas, che certo non mi sono mai azzardato a negare, iniziò la guerra delle sanzioni contro Mosca. Non avendo ottenuto quelle ritorsioni tutto l’effetto sperato, si passò, infine, alla fase del confronto bellico a distanza tra Occidente e Russia. Confronto che portò in breve tempo a un importante rafforzamento del fronte Nato sul Baltico, in Polonia e sul Mar Nero, alla partecipazione, in spregio a tutti i trattati, di alcuni Paesi dell’ex Patto di Varsavia, come la Polonia, alle esercitazioni nucleari dell’alleanza, all’invio di circa 300 addestratori statunitensi in Ucraina, alla apertura di trattative per l’ingresso di Svezia e Finlandia nel North Atlantic Treaty Organization. Se i negoziati in questo senso arriveranno a buon porto, come tutto lascia presupporre, gli Usa saranno in grado di arruolare nell’intesa avversa a Mosca due nemici storici della Russia che dal Golfo di Botnia potrebbero agevolmente minacciare San Pietroburgo con un attacco areo-navale, con la stessa facilità con la quale un’aggressione terrestre sarebbe in grado di penetrare nel territorio della Federazione Russo oltrepassando il lunghissimo confine ucraino, pianeggiante, privo di ostacoli naturali e sito a soli 480 chilometri dal Cremlino.
Siamo così di fronte a quello che è stato recentemente definito «l’inizio della Guerra Fredda dopo la Guerra Fredda». Un inizio ampiamente testimoniato anche e forse soprattutto dal documento del National Defense Panel, redatto il 31 luglio 2014, con il quale un gruppo di consulenti del Pentagono individuava come principali minacce alla sicurezza degli Stati Uniti non più la Corea del Nord, l’Iran, l’Iraq (le tre Nazioni che per George Walker Bush costituivano il cosiddetto «Axis of Evil»), ma la Russia e Cina.
Di Eugenio di Rienzo
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