Giustizia, giustizialismo, giustiziati. La questione carceraria fra indifferenza e disinformazione
Di carcere si parla poco e per quel poco il più delle volte a casaccio. C’è uno scollamento brutale tra la realtà della detenzione e quello che di essa si pensa e si sa all’esterno, fatto salvo il grumo di pregiudizi, falsi miti, idee anacronistiche e, a corredo di tutto, una profonda ignoranza. Di carcere si sa quello che si coglie al volo dalle notizie confezionate per il grande pubblico, con un taglio giustizialista pronto a rintracciare e punire per sempre (per sempre) un colpevole. Diversi osservatori segnalano da anni che la stampa italiana dedica alla cronaca nera uno spazio eccessivo e comunque molto più importante rispetto a quanto succede nel resto d’Europa. […] Articoli non necessariamente falsi, ma che tendono solitamente a vedere solo un aspetto della realtà, si focalizzano cioè sulla manifestazione della violenza piuttosto che su ciò che ha prodotto quella violenza. Del baratro che si spalanca davanti ai piedi di chi subisce una condanna nessuno ha contezza. Dei diritti negati, della sonnolenza della giustizia penale, della miopia amministrativa, della farraginosità burocratica, dell’idiosincrasia per le misure alternative, del sovraffollamento, dei suicidi, neppure.
Oltre il blindo, dentro le celle, si addensa una coltre di abusi e violazioni, di solitudini e linguaggi che si inceppano per i quali non esiste un dibattito nazionale, un presidio permanente di indagine e di critica. Non esiste un percorso di educazione civica e sociale che metta cittadine e cittadini nelle condizioni di mutare il proprio sguardo sulla detenzione, sulle persone ristrette, sull’incisività delle pene, sulle possibilità di recupero.
Che cosa significa parlare di carcere e in che modo lo si deve fare, allora, non è più soltanto una necessità di cronaca, ma un’esigenza sociale, un dovere morale davanti a uno scempio silenzioso dei diritti umani e della Carta Costituzionale. Stefano Natoli, nel suo saggio Dei relitti e delle pene (Rubbettino), lo fa con una chiarezza partecipata, una voce accorata, una lucidità didattica e una indignazione costruttiva, tracciando un quadro approfondito e argomentato della questione carceraria – come evoca il sottotitolo – tra i due picchi drammatici dell’indifferenza (dell’opinione pubblica e degli attori giuridici e penali) e della disinformazione (il sistema mass mediatico lacunoso e distorcente). In mezzo c’è storia, giurisprudenza, politica, attualità, cronaca, statistica e la propositività delle anime che si portano una causa nel cuore.
Mi colpisce fortemente il suo insistere su due elementi che costituiscono la vita delle persone ristrette: il sovraffollamento dei penitenziari e l’ostracismo giuridico e intellettuale alle misure alternative. Sono questi i punti cruciali e consequenziali senza superare o affermare i quali ogni altra azione è inutile e superflua. La “madre di tutte le soluzioni” di contrasto al sovraffollamento – scrive Natoli – è, comunque, senza dubbio alcuno, l’abbandono della visione “carcero-centrica” – che ha ormai fatto il suo tempo – e l’adozione di un sistema sanzionatorio che punti con coraggio e lungimiranza all’allargamento delle pene alternative alla detenzione. In attesa di questo allargamento, è urgente valorizzare il tempo del carcere quale tempo di espiazione e di riscatto; collegare realtà carceraria e società civile e puntare con sempre maggiore convinzione su itinerari formativi. Il futuro del sistema penitenziario deve guardare al carcere non più come a un luogo di sola detenzione, ma come a un organismo che deve fornire a tutti la possibilità di acquisire nuove competenze, educative e formative, per un reinserimento nella società al termine della pena.
Il carcere è inutile quando non restituisce alla collettività cittadini e cittadine e la giustizia penale lo è altrettanto quando è vendicativa, dura, insensibile ai cambiamenti, agli interrogativi e quando è sorda ai dibattiti sull’umanizzazione della detenzione. […] più che prevenire si gente a punire e “la maggior parte delle leggi” continua a essere “un tributo di tutti al comodo di alcuni pochi”. Leggi che troppo spesso tendono a prevedere l’utilizzo del carcere come strumento principe dell’esecuzione penale. Ne è una prova la “bulimia penitenziaria” di cui soffre da anni L’Italia. Una “bulimia” alimentata, appunto, “dall’ipertrofia sanzionatoria” che da troppo tempo caratterizza il diritto penale italiano[…]. (Ne parlo qui).
Natoli questo lo mette in evidenza e lo fa con un coinvolgimento personale verticale e toccante. Perché conosce a fondo l’apparato stigmatizzante di stereotipi che colpisce le persone detenute e perché conosce il valore profondo dei rapporti umani che si intrecciano tra l’universo carcerario e il volontariato. Al di là di quello che possa significare entrare in carcere da persone libere (e chi siano i reali beneficiari di ciò), è il ruolo di ponte che Natoli esalta a valere tutte le ragioni e le motivazioni che possano spiegare perché si sceglie di stare tra gli ultimi degli ultimi. Per chi è stato condannato e quindi allontanato dalla società […] parlare con qualcuno che non sia un parente, un avvocato o un magistrato, vuol dire prima di tutto essere riconosciuto come persona, rispettato, e in un certo qual modo rinascere socialmente. Ma non è questo soltanto: chi entra in carcere da volontario, dopo un paio di ore torna fuori ed è questo lo strumento potente. Mentre portiamo ciò che è esterno tra le sbarre, allo stesso tempo, nel mondo libero, facciamo conoscere quello che accade dietro le mura della prigione. E’ un passaggio che tocca me, ovvio, che come volontaria porto letteratura dietro le sbarre e conosco il valore delle attività trattamentali, dei laboratori, delle relazioni altre che nascono dalla costruzione di uno spazio libero da pregiudizi e da giudizi (ne ho scritto qui). Ma deve toccare chiunque si ponga un interrogativo spinoso e necessario: che cosa ne so di quello che succede dietro il blindo, dei tentativi di suicidio, dell’inumanità della vita detentiva, della miopia e unilateralità delle pene, dei percorsi di riabilitazione, dei diritti negati, di cosa pensa, vede e soffre una persona ristretta?
Che cosa ne so del significato primigenio della parola vittima? Vittima viene da víctus, che significa vitto, il cibo che veniva offerto agli dei. Esattamente come la figura della persona ristretta viene offerta in pasto alle politiche securitarie e giustizialiste di questo Paese. I dati statistici, le testimonianze contribuiscono a tracciare un quadro drammatico dentro il quale i detenuti non sono più gli unici cattivi, ma fanno parte anch’essi delle vittime.
Sono vittime quando il carcere che si apre davanti a loro è niente di più e niente di meno che una discarica sociale nella quale ammassare le marginalità disagiate, i reietti, i tossicodipendenti, i senza fissa dimora, le prostitute, i migranti senza permesso di soggiorno, tutti coloro, insomma, che attentano al decoro urbano (ne parlo qui) e per i quali il carcere non è la soluzione e gli strumenti di recupero dovrebbero essere altri.
Sono vittime quando il sistema è iniquo nell’infliggere le pene. […] a essere perseguiti con rigore sono i reati “di strada”, ovvero furti, scippi e rapine […] gli illeciti commessi da ricchi e potenti sono, invece, trattati troppo spesso con indulgenza: per le violazioni societarie, bancarie e tributarie sono previste maglie larghe; l’inquinamento di quei beni – aria, acqua, suolo – che sono patrimonio comune è punito perlopiù a titolo di contravvenzione; le morti da infortunio sul lavoro comportano condanne relativamente contenute. Quando vanno in galera i poveri nessuno si chiede se le intercettazioni abbiano leso la riservatezza, se sia stato violato il segreto investigativo o se la carcerazione preventiva sia giustificata; quando si sfiora qualche personaggio eccellente fioccano invece le polemiche contro lo straripare della magistratura, la “giustizia a orologeria”, la politicizzazione e il protagonismo di certe procure.
Sono vittime quando non possono curarsi e sono private del diritto alle relazioni affettive e intime. In Italia sono ammalati due detenuti su tre. Tra i 25mila e i 35mila reclusi hanno contratto l’Epatite C; tra il 25% e il 30% soffre di tubercolosi latente e circa 5mila detenuti sono sieropositivi. Il 4% soffre di disturbi psicotici, il 10% di depressione, il 65% è affetto da disturbo della personalità. Infine, L’Italia è uno dei pochi Paesi europei a non consentire ai detenuti di continuare ad avere una vita affettiva e una normale sessualità né coi propri coniugi che vivono all’esterno né con partner conosciuti in carcere. Un diritto riconosciuto in 31 dei 47 Paesi che compongono il Consiglio d’Europa.
Sono vittime, infine, i sottoposti a custodia cautelare e coloro che scontano pene per reati mai commessi. Per l’effetto della “carcerite” schizoide che colpisce il nostro sistema penale, dal 1992 al 2019 si sono registrati oltre 27.000 casi di persone che finiscono in galera da innocenti (che allo Stato costano in risarcimenti qualcosa come oltre 700 milioni di euro, circa 29 milioni di euro all’anno).
C’è un sistema penale e penitenziario malato, arretrato, ottuso che tiene conto solo del reato e dimentica di dare valore alla vita. C’è un Paese, una società, una comunità che delle condizioni dei detenuti non conosce nulla; c’è un vuoto di critica e di problematizzazione e quindi di dibattito diffuso che contribuisce solo a insabbiare di più la questione, a sfrangiarne i contorni, a renderla impalpabile e quindi inesistente e ad esaltarne solo gli aspetti che fanno comodo alle politiche securitarie, ai giustizialisti di carriera, al ministero della paura che cerca sempre capri e nemici, cancellandone i volti, triturandone la memoria, la dignità e una parvenza faticosa di domani.
Dei relitti e delle pene – da leggere, rileggere e studiare – ha una umanità che tocca corde profondissime, diventa un manifesto di denuncia e di azione, la voce dei volontari, dei misur-alternativisti e degli stessi detenuti, dei cappellani, dei magistrati impegnati a riformare dall’interno il sistema giudiziario penale.
Ad un saggio si richiederebbe imparzialità per non intaccare il metodo scientifico con il quale lo si è costruito. Invece Stefano Natoli ci tiene a dimostrare che no, che si può essere rigorosi anche prendendo una posizione ed è questo che segna uno scarto fondamentale. Davanti alle questioni che coinvolgono la società – specialmente gli ultimi di essa – si deve essere parziali, scegliere da che parte stare. Natoli, mettendo nero su bianco le storture del sistema, le violenze, l’assurdità dell’ergastolo, la tragedia delle vite che si sciupano e del tempo che si spreca, cerca di rendere giustizia a quella parte della collettività (che vi piaccia o no, i detenuti e le detenute ne fanno parte) che altri vorrebbero si dimenticasse. Gettare via la chiave e marcire in galera sono il linguaggio che incarna una indifferenza cinica e aberrante, che si volta dall’altra parte e chiude gli occhi laddove, al contrario, Dei relitti e delle pene si chiude con una spinta alla presa di coscienza e alla reazione. Al coraggio di stare dalla parte di Caino, per non essere colpevoli, come avrebbe detto Voltaire “di tutto il bene che non abbiamo fatto”.
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