da Corriere della Sera del 2 Giugno
De Gasperi va fatto scendere dal piedistallo di marmo sul quale è stato posto e va calato tra di noi», scrive Giuseppe Sangiorgi, giornalista, saggista, già presidente dell’Istituto Luce, in De Gasperi, uno studio (Rubbettino, pagine 230, €15): una biografia quanto mai avvincente dello statista trentino, di cui il prossimo 19 agosto ricorre il sessantesimo anniversario della scomparsa. Sangiorgi riesce infatti a ricostruire una serie di episodi che colgono De Gasperi sia nell’intimità familiare, sia sul grande palcoscenico nel quale si muovono i personaggi politici. Lo stile scorrevole e la prosa essenziale contribuiscono a restituire al lettore quei tratti personalissimi che contraddistinsero uno dei padri della Repubblica, nonché iniziatore dell’integrazione europea. Ciò che distingue il saggio di Sangiorgi dalle altre biografie dello statista è la ricerca minuziosa del dettaglio dimenticato, della testimonianza trascurata, del documento inedito, il che ha permesso all’autore di raccontare la vita di un De Gasperi sconosciuto a partire dall’infanzia in Trentino ancora sotto il dominio austriaco. Nota è la sua aspirazione a diventare cittadino italiano anche quando nel 1911, come suddito austriaco, è eletto deputato al Parlamento di Vienna. Curioso il parallelismo tracciato da Sangiorgi fra la vita di De Gasperi e quella di Togliatti, due personalità che non potevano essere più diverse, ma che il destino fece incontrare. «Tutti e due erano appassionati dei cori di montagna, ma la tradizione trentina dell’uno non si accordava con quella piemontese dell’altro». Non solo: il nome Alcide deriva dal greco alceis, che significa robusto ed è sinonimo di Ercole, ed Ercole Ercoli fu proprio lo pseudonimo adottato da Togliatti, scrive Sangiorgi, nel raccontare come il mite e religioso De Gasperi si trasformò in astuto e agguerrito combattente per fronteggiare l’avversario politico. Nonostante la fede dichiarata e indiscussa, il rapporto con il papa Pio XII non si trasformò mai in amicizia, il loro restò un dialogo a distanza, perché, scrive Sangiorgi, la Santa Sede giudicava l’atteggiamento del governo italiano e della Democrazia cristiana troppo debole nei confronti del comunismo. Eppure De Gasperi non si stancava di ripetere a monsignor Pavan, della Pontificia Università Lateranense: «Si immagini monsignore se non mi impegno a fondo: qualora dovesse avere il sopravvento il comunismo, anche per brevissimo tempo, il primo ad essere impiccato sarei io!».
Combatté il Partito comunista, ma non venne mai a patti né si alleò con la destra, neppure nel 1952 in occasione delle elezioni per il Comune di Roma. Molto materiale inedito l’autore ha ricavato dagli appunti che De Gasperi soleva vergare su dei foglietti per fissare un giudizio o un ricordo. Proprio dai foglietti si ricava non solo il suo giudizio sul ruolo che avrebbe dovuto svolgere la Democrazia cristiana, da lui definita un partito di centro orientato a sinistra, ma anche l’idea che aveva del rapporto fra politica, Chiesa e gerarchia ecclesiastica: «I cattolici dovrebbero apprendere a stare in ginocchio, ma anche a stare in piedi». Fu l’artefice della ricostruzione, a partire dalla Costituente. Le sue idee sull’economia di mercato, ispirate in parte alla dottrina sociale della Chiesa, le espresse per l’ultima volta nel giugno del 1954 nel congresso della Dc a Napoli: «Né capitalismo, né comunismo, ma solidarismo di popolo in cui lavoro e capitale si associno, con crescente prevalenza del lavoro sotto il controllo o con la propulsione dello Stato democratico». Per aiutare la ricostruzione del Paese, De Gasperi fece sì che venisse approvata la Cassa per il Mezzogiorno, per poi recarsi nel luglio del 1950 in visita ai «Sassi» di Matera: visita che gli confermò in modo drammatico la giusta politicà della Democrazia cristiana contro la povertà e l’arretratezza strutturale del Sud. Fu molto attivo anche in politica estera: nel gennaio 1947 si recò negli Stati Uniti, un passo che preparò l’adesione al piano Marshall. Aveva fatto il suo esordio in un convegno internazionale il io agosto 1946, alla Conferenza di pace di Parigi. In qualità di capo del governo aveva l’onere di rappresentare il proprio Paese, reduce da vent’anni di dittatura, uscito sconfitto dalla guerra più atroce del secolo, economicamente in ginocchio. In mano aveva due sole carte: il proprio passato – non aveva mai chinato la testa sotto il fascismo – e il ruolo svolto dalla Resistenza. «Prendendo la parola in questo consesso mondiale – disse – sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me…». Il suo discorso, per la dignità e la credibilità, riuscì a fare dell’Italia un interlocutore ascoltato.
di Giovanni Russo
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