Di fronte al disordine mondiale, ci si chiede con sempre maggior insistenza “chi comanda il mondo”. La domanda è al centro dell’ultimo libro di Giorgio Galli e Mario Caligiuri che si concentrano sul ruolo della “superclasse” finanziaria e sull’impatto delle decisioni delle élites non elettive sui sistemi democratici «Quando io uso una parola» spiega Humpty Dumpty ad Alice, nel noto racconto di Lewis Carroll, «quella significa ciò che io voglio che significhi – né più né meno». «La questione», ribatte Alice, «è se si può costringere una parola a significare cose tanto diverse fra loro». «La questione» (questa la contro replica di Humpty Dumpty) «è chi comanda – ecco tutto».
Il dubbio di Alice ritorna alla mente, leggendo le pagine dell’ultimo libro di Giorgio Galli e Mario Caligiuri Come si comanda il mondo. Teorie, volti, intrecci (pagine 232 , euro 16) edito da Rubbettino. A “comandare” il mondo è una struttura impersonale, sistemica oppure – questa è la chiave scelta dagli Autori – dietro la maschera, c’è il volto (e la mano) molto concreto di una superclasse? Il potere è un intreccio di relazioni liquide che si sottrae non solo alla politica ma ad ogni forma della decisione oppure, semplicemente, come aveva intuito fra gli altri Ulrich Beck, la politica non è più il luogo sovrano della decisione? (E allora quel luogo – scatta così la strategia di Alice – va reinventato). Galli, decano dei politologi italiani, e Caligiuri, tra i massimi studiosi di intelligence, propendono per questa seconda ipotesi. Spiegando: «la politica è stata neutralizzata dall’economia attraverso un potere che non è anonimo o legato agli sviluppi dell’innovazione tecnologia o dell’intelligenza artificiale, bensì è rappresentato dai manager che controllano determinate multinazionali economiche e finanziarie».
Il discorso è delicato. Tanto più che ci troviamo in giorni di piena euforia (mediatica) per il World Economic Forum che si è aperto ieri a Davos e, come ogni anno dal 1971, riunisce il gotha politico ed economico mondiale. Nell’amena cittadina svizzera, i tremila invitati rappresentano (o rappresenterebbero) un tipo- umano che il celebre autore dello Scontro di civiltà Samuel Huntington aveva sitetizzato in una figura quasi mitica: «the Davos man/woman».
Di fronte al disordine del mondo multipolare, ci si domanda con sempre maggior insistenza “chi comanda il mondo”. E la domanda sembra trovare una risposta: la superclasse che si riunisce a Davos. L’uomo che conta, il master of universe, dovrebbe seconda questa lettura necessariamente sottoporsi a un passaggio tra le amene Alpi svizzere, nel Cantone dei Grigioni. Resterebbe da chiedersi, come faceva il 22 gennaio scorso, sulle pagine del Washington Post, Ishaan Tharoor: «Will Trump become a Davos Man?». E se Davos fosse solo un’altra maschera? Chissà. L’insider David Rothkopf, più volte richiamato nel lavoro di Galli e Caligiuri, così definisce il membro di questa superclasse di decisori: «capi di Stato, alti dirigenti delle più importanti multinazionali, magnati dei mass media, miliardari che gestiscono personalmente i propri investimenti (…) qualche capo religioso, qualche scrittore noto, scienziati, artisti [quest’anno, sono stati invitati e premiati anche il cantante Elton John e l’attrice Cate Blanchett ndr] e persino leader terroristi e maestri del crimine». Le concentrazioni di capitali privati, osservano Galli e Caligiuri, hanno scalzato lo Stato, diventando il principale centro di potere delle nostre società. Un’élite ristretta, non elettiva, «proveniente sostanzialmente dal settore finanziario, domina il processo di globalizzazione e controlla molti governi attraverso il potere politico delle multinazionali». Potere capace di indirizzare la critica su binari morti e obiettivi secondari: da qui la sua tendenza proteiforme e camaleontica. Galli e Caligiuri lavorano così attorno a due concetti operativi: da un lato, il potere economico delle multinazionali; dall’altro, il concetto di interlocking directorate, ossia la relazione sociale creata dalla ristretta cerchia di soggetti che siedono in più collegi di amministrazione. Il potere, dunque, pur avendo una base personale, si struttura e ramifica su base fiduciaria-relazionale e su cooptazione fra “pari”. Autorevolezza e carisma diventano caratteristiche delle sovrastrutture, non di queste sotto-strutture transnazionali e transtemporali. Attraverso un lavoro di business intelligence e un’indagine del Politecnico di Zurigo, Galli e Caligiuri individuano 50 società che governano l’economia globale e 65 persone «sconosciute ai più che probabilmente sono quelle in grado di influenzare i destini del mondo». Ne esce una rete del potere che va dalla finanza all’editoria, dalle agenzie di rating al mondo accademico. Una rete che fa della multiposizionalità del potere (le sedie nei Cda) uno strumento efficacissimo di condizionamento e controllo. «Pur non esistendo una “cupola” globale che condiziona i destini del mondo», osservano gli Autori, «anche perché le multinazionali sono in sfrenata competizione tra loro, dobbiamo riconoscere che esse esprimono un forte potere di indirizzo sui destini del pianeta. Si tratta di persone che condividono gli stessi orizzonti culturali, i medesimi percorsi formativi, una comune visione del mondo». Questa visione del mondo, concludono Galli e Caligiuri, trova in Davos il proprio centro “spirituale” e materiale. Qui, davvero, come nel racconto di Carroll, al netto della retorica degli entusiasti e dei cantanti, «la questione è chi comanda». Che il mondo esaurisca il proprio insopprimibile desiderio di libertà nell’arbitrio/comando di pochi è però il triste sogno degli Humpty Dumpty di sempre. Non certo la forza o il destino di Alice.
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