Si moltiplicano gli studi sull’impresa fiumana di Gabriele d’Annunzio: da quando, l’11 settembre 1919, partì da Ronchi, a quando s’impose nella «città di vita»; dai rapporti incessanti con i legionari e i cittadini, a quando, dopo il «Natale di sangue», dovette chiudere l’ineffabile avventura. Fu meno di un anno e mezzo, che rivelò le sue capacità politiche e, insieme, i suoi limiti, non essendo certo un professionista della politica. Fu una vicenda che fece pensare alla possibilità che conquistasse di persona il potere, sfruttando un seguito che non gli mancava. Avrebbe insomma potuto svolgere il ruolo che invece seppe attribuirsi Benito Mussolini con la conquista della presidenza del Consiglio, che segnò la fine (con l’immediata nascita di un governo di larghe intese) per qualsiasi ambizione vera o attribuita o da altri sognata per il Vate.
D’Annunzio visse successivamente come recluso nella dimora che principescamente volle edificarsi, continuando a scrivere, specie guardando dentro sé stesso, curando l’edizione ultima delle proprie tante opere, raggiungendo la (non ambita) presidenza dell’Accademia d’Italia e infine, particolare sintomatico, avvertendo invano Mussolini di non legarsi al Fuehrer. La sua vita conobbe dunque due ben distinte fasi: quella letteraria, dagli esordi ragazzino sino al primo conflitto mondiale e posteriormente ai mesi fiumani; quella eroica, con le imprese nella grande guerra (su tutte, l’impareggiabile volo su Vienna) e con la successiva «penultima ventura».
Il volume steso da Eugenio Di Rienzo, ordinario di storia moderna a Roma-Sapienza, nasce da una vasta ricerca archivistica: nella sua imponenza, non riesce sempre di agevole lettura. Sui rapporti tra fiumanesimo e fascismo l’autore riprende l’ormai assodato afascismo (se così vogliamo definirlo) dannunziano. «Il regime saccheggiò il Fiumanesimo non solo dei simboli, della liturgia, delle parole d’ordine, dei metodi della propaganda politica, e in primo luogo del rito populista del ‘discorso dal balcone’, in cui si esercitò prima d’Annunzio dalla chiostra del Palazzo del Governo di Fiume e poi per molti anni Mussolini dalla loggia di Palazzo Venezia. La dittatura littoria, inoltre, si approcciò anche delle linee guida della politica estera partorita da d’Annunzio nel capoluogo del Quarnaro: l’espansionismo mediterraneo, la guerra per procura contro la Jugoslavia e la Grecia, l’alleanza con i ‘vinti della Grande Guerra’ (dall’Ungheria, alla Germania, alla Russia), il disegno, rivolto soprattutto al mondo arabo, finalizzato a unire, nella ‘crociata del sangue contro l’oro’, tutte le Nazioni soggette al dominio dell’imperialismo britannico esercitato spietatamente ‘dagli smungitori di popoli inermi, dai divoratori di carne umana’».
In effetti, d’Annunzio lanciò da Fiume un’interpretazione religiosa della politica, giungendo a ideare forme mai prima praticate di comunicazione, di propaganda, di divulgazione. Mai andrebbe dimenticato quanto da lui scritto all’avvio di Maia, primo libro delle Laudi: «Nessuna cosa/ mi fu aliena;/ … Tutto fu ambìto/ e tutto fu tentato./ Quel che non fu fatto/ io lo sognai;/ e tanto era l’ardore/ che il sogno eguagliò l’atto».
Di Rienzo vuole andare oltre la cosiddetta inadeguatezza politica del Poeta, che gli costò la sconfitta rispetto a Mussolini, invece fin dagli anni socialisti maestro di color che sanno in politica. Bisogna considerare «la sua indubbia maestria di mediare tra la sinistra e la destra fiumana, tenendo sempre stretto il bastone di comando, e di riuscire, con maggiore o minore successo, a far fronte a maestri d’intrighi della stazza di Badoglio, Nitti, Giolitti, Sforza». Invece che d’inadeguatezza politica, Di Rienzo parlerebbe, piuttosto, di una «impoliticità» dannunziana.
L’Orbo veggente «portò a termine l’occupazione di Fiume non navigando in solitaria, accompagnato soltanto da un manipolo di animosi e fedeli seguaci». D’Annunzio divenne il «Duca del Quarnaro», come lo definì la stampa socialista, perché «ispirato e reso materialmente possibile dal concorso dei Poteri forti (economici e finanziari), dei vari gruppi di pressione, a volte difficilmente etichettabili politicamente, della Fratellanza massonica, dalla grande e media stampa schierata o autodefinitasi indipendente. Forze, queste, ben radicate nella struttura dello ‘Stato visibile’ (Forze Armate, varie agenzie di intelligence, apparato burocratico, spezzoni del governo), in quel momento, dettavano o quantomeno influenzavano fortemente l’agenda della politica italiana».
L’autore ricorda la fisionomia dannunziana di uomo «impolitico» e la repulsione a farsi ingabbiare in una disciplina di parte o di partito. «Era, questa, un’inclinazione radicatissima nell’animo del Vate che però restò sempre aperto allo ‘spirito di vita’ che dalla politica poteva provenirgli senza distinzione di fedi o ideologie, anche se in lui si sommarono e si contrapposero, senza soluzione di continuità, a Fiume o dopo Fiume, un aristocratico conservatorismo, un impulso reazionario fieramente avverso alla brutalità delle masse e il diritto-dovere dell’individuo eccezionale di dominarle con la forza della parola, un confuso socialismo anarchicheggiante, una sincera avversione verso le Plutocrazie sfruttatrici della ‘schiuma della terra’, e un passionale nazionalismo, infine, prevalente su ogni altra tendenza».
Andrebbe ricordato che, nel suo carattere, d’Annunzio era e rimase un esteta, dominato dall’arte. Ogni lettura di qualsiasi sua attività, comprese quelle belliche, richiede quindi di considerare il suo legame, o condizionamento se si voglia, con i fondamenti estetici.
Eugenio Di Rienzo, D’Annunzio diplomatico e l’impresa di Fiume, Rubbettino ed., pp. 942