Il volume di Eugenio Di Rienzo D’Annunzio diplomatico e l’impresa di Fiume edito da Rubbettino ha un tratto anticonformista che non è sempre facile trovare in opere su temi così apparentemente consolidati come il primo dopoguerra italiano. L’autore già ci aveva abituato a letture della storia italiana non consuete come la sua ancora recente biografia di Galeazzo Ciano, uscita nel 2018 per i tipi di Salerno Editrice. Ma con D’Annunzio riesce a disegnare un’immagine dell’Italia politica degli anni tra il 1914 e il 1920 non abituale, fuori da quell’ordinario storiografico cui, talvolta colpevolmente, ci siamo assuefatti. Questo è il primo pregio del volume: l’impresa di Fiume, e la stessa figura del poeta, sono inseriti in una narrazione storica che mostra, con qualche predilezione per le rivelazioni, una ricostruzione originale della lunga crisi della società e della politica italiane che sarebbe sfociata, nel 1922, nell’affermazione del regime fascista.
Non di rado si è parlato di Gabriele D’Annunzio come del Giovanni Battista del fascismo. E la storiografia, molto spesso, ha voluto guardare alla sua azione fiumana analizzandola retrospettivamente dal termine ad quem; cioè dal trionfo, prima parlamentare e poi autoritario, di Benito Mussolini. Di Rienzo, invece, ha inteso ricostruire la spedizione dannunziana osservandola nelle sue origini che affondavano direttamente nelle scelte che, nel 1914-1915, la classe dirigente italiana, con il re in testa, fece in merito all’intervento in guerra. Le radici della crisi fiumana affondano nel Patto di Londra. Si ritrovano nel tentativo fallito dell’Italia unita di scalare la gerarchia delle potenze mondiali cercando di prescindere dalla sua impreparazione militare, dalla sua disorganizzazione statale, dalla sua povertà diffusa, dalla debolezza delle sue ancora poco legittimate istituzioni. Erano state proprio queste le ragioni che avevano indotto, nel 1914, il ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano, a disegnare un ingresso dell’Italia nel conflitto contrassegnato da una preparazione diplomatica quasi maniacale.
Le possibilità di vittoria, nel suo pensiero, sarebbero state direttamente proporzionali alla prudenza con cui si sarebbero perseguite. L’interventismo del 1915 scavalcò questa concezione diplomatica. La congiunzione delle volontà di monarchia e una ben selezionata folla di interventisti schiacciò il Parlamento giolittiano e neutralista spingendolo ad accodarsi al desiderio di trasformare l’Italia, tramite la guerra, in una potenza mondiale.
Gli animal spirit del conflitto, però, superarono le volontà di coloro che lo avevano voluto. Le trincee italiane, che ingoiarono 680.000 giovani vite, reclamavano il premio pattuito. Ma soprattutto produssero una rivoluzione nella società. L’esercito – il vero protagonista dell’Italia 1915-1918- non era più un’espressione di quell’élite piemontese imbevuta di ideali risorgimentali dei primi anni unitari. Si era trasformato in una realtà di massa, un vero e proprio specchio del Paese. Era divenuta una fucina di aspirazioni – individuali e collettive – che la mediocre politica parlamentare rischiava di deludere e, dunque, di infiammare. Nel film Lawrence d’Arabia, il regista fa dire a un cinico diplomatico britannico, in un colloquio con il giovane e idealista ufficiale ritornato dal deserto infatuato dell’idea panaraba: «La guerra è per i giovani, la pace è per i vecchi».
Non a caso Di Rienzo parla di «partito militare». Una nuova realtà politica con cui i governi liberali del dopoguerra si dovettero confrontare, non di rado uscendone sconfitti o quanto meno pesantemente condizionati. Essa era sì composta da autorevoli generali che dovevano la propria forza politica alla vittoria del novembre del 1918; ma soprattutto da una folla di giovani superstiti in grigioverde che reclamavano che il sacrificio dei propri commilitoni fosse compensato. E’ naturale che le aspirazioni di quella moltitudine indistinta fossero diverse, molte anche di natura sociale e non solo patriottica. Ma la Fiume dannunziana funse, in larga parte, da catalizzatore di tutto ciò. E l’annessione della città adriatica divenne politicamente uno spartiacque tra sconfitta e vittoria, tra gioventù e vecchiezza, tra patriottismo e rassegnazione, tra passato indegno e futuro radioso. Manipolazioni politico-mediatiche, potremmo oggi facilmente dire. Ma questo era il sentiment di quella parte dell’opinione pubblica italiana che si sentì chiamata in prima persona a difendere i frutti della Vittoria.
D’Annunzio Comandante e l’impresa fiumana nacquero lì, nella sproporzione tra aspirazioni e realizzazioni possibili, nel divario tra Paese sognato e Paese esistente, in una specie di trappola di Tucidide sociale che sembrava poter condurre soltanto alla rivoluzione. Ma il nodo storiografico che Di Rienzo cerca di sciogliere non è solo il perché della nascita del «fenomeno D’Annunzio»; ma anche il come che, nell’interpretazione dello storico romano, è parte integrante della sua ragion d’essere. Il Poeta era stato già utilizzato dalla classe dirigente italiana per mitigare i contraccolpi che la sconfitta di Caporetto aveva prodotto nella pubblica opinione. Le sue imprese, opportunamente propagandate, avevano dunque avuto l’obiettivo di restaurare il prestigio delle armi italiane di fronte allo scoraggiamento generale.
Il negoziato di pace di Parigi, condotto da Orlando e Sonnino nella prima metà del 1919, assomigliava a una Caporetto, anche se solo diplomatica. Wilson era il nuovo capo dell’Intesa; il societarismo multilateralista e democratico era divenuto l’ideologia cui si sarebbe dovuto ispirare l’equilibrio mondiale postbellico. Niente di più avverso alla politica di potenza nazionale dell’ultima ora concepita da Sonnino e da esso strenuamente difesa durante la Conferenza della Pace, sebbene con minore rigidità di quanto la vulgata storiografica abbia tramandato.
Il presidente del Consiglio cercò sostegno nel Parlamento abbandonando Parigi clamorosamente per cercare a Montecitorio appoggi e nuova linfa negoziale. Quel Parlamento –era lo stesso- che nel 1915 aveva giudicato realizzabile il progetto giolittiano del «parecchio» era divenuto estremista. Aizzò Orlando contro gli alleati e, nella sostanza, contribuì alla definitiva proclamazione di Fiume a “seconda capitale d’Italia”. Ma non dette al leader siciliano – anche perché non li aveva – i mezzi per vincere la sua battaglia. Nelle settimane che videro il naufragio del gabinetto Orlando e il varo del governo supergiolittiano di Nitti e Tittoni, Di Rienzo individua una svolta politica importante. Alla crescita del senso di disorientamento e frustrazione della classe dirigente italiana corrispose la necessità di trovare una via d’uscita. Le voci – ma soprattutto le azioni – di un colpo di Stato militare si fecero insistenti, come dopo Caporetto.
L’impresa di Fiume si collocava in questo crinale. Alla necessità di ordine e chiarezza politica che richiedeva la società italiana fu data una risposta rivoluzionaria: la spedizione di Fiume che lanciava i propri strali contro Cagoia Nitti, Wilson e la sua Società delle Nazioni, una Serbia prepotente che voleva andare oltre i propri meriti bellici divenendo Jugoslavia e insidiando la sospirata egemonia italiana sull’Adriatico. Ma i nemici del D’Annunzio antisistema erano gli stessi del sistema monarchico e liberale della cui politica egli si proclamava l’alternativa, ancorché romantica. Il nocciolo dell’analisi di Di Rienzo è qui: la rivoluzione dannunziana trova i suoi natali nel sistema che non riesce a conseguire con i mezzi ordinari i suoi obiettivi territoriali.
La politica e la diplomazia del Vate erano schiettamente italiane. Ma il governo non poteva perseguirle integralmente perché inserito in un contesto internazionale che non lo consentiva. La crisi degli approvvigionamenti, l’inflazione e la disoccupazione erano il carburante del malessere sociale che minacciava di trasformarsi in rivoluzione. Gli esiti della consultazione elettorale del novembre 1919 – realizzata con il metodo “progressista” della proporzionale applicato al suffragio universale maschile di marca giolittiana – dette esiti ancor più destabilizzanti. I partiti antisistema –socialisti e popolari- divennero il perno del Parlamento sostituendo le camarille liberali postrisorgimentali. Non a caso furono i “rossi” e i “neri” – insieme al residuo giolittismo- gli interlocutori, soprattutto oppositivi, della marcia trionfale di Mussolini nelle istituzioni, non i liberali.
L’impresa di D’Annunzio trovò la sua linfa vitale nel sistema. Il suo rivoluzionarismo e la sua imprevedibilità non furono d’ostacolo. Pezzi importanti delle istituzioni e dell’opinione pubblica organizzata espressero il loro più o meno scoperto sostegno alla spedizione. Il «partito militare» fornì le truppe, ma soprattutto la sua indefettibile fedeltà monarchica; la massoneria il suo patriottismo e la sua capillarità istituzionale; i servizi segreti i loro opachi canali di collegamento; la grande industria e la grande finanza il combustibile per mettere in moto la macchina del fiumanesimo e per permetterle di funzionare a pieno ritmo per poco meno di 500 giorni I governi – sia Nitti che Giolitti – trovarono nel soi-disant nemico D’Annunzio il pretesto con cui ricattare gli alleati, ormai divenuti avversari, e logorare la loro rocciosa resistenza alle richieste adriatiche di Roma.
Fu la momentanea eclissi dell’influenza americana in Europa e la necessità di una stabilizzazione politico-economica del Continente a congiurare contro D’Annunzio. Quando gli anglo-francesi degradarono la questione adriatica a problema diplomatico ben più che secondario abbandonarono Belgrado al suo destino. Questo volle dire il varo di trattative bilaterali in cui Roma avrebbe potuto far valere il proprio ruolo di grande potenza, senza troppe interferenze da parte di ciò che rimaneva dell’Intesa. Il sistema, dunque, non ebbe più bisogno di D’Annunzio. Ma Fiume si era radicata nell’opinione degli italiani. Per questo Giolitti e Sforza cercarono, perlomeno apparentemente, di includere il Comandante nello sforzo negoziale che doveva condurre alla soluzione diplomatica della questione adriatica.
L’acuto politico piemontese sapeva che non avrebbe potuto fronteggiare una ribellione di ordine nazionale nel mentre affrontava la minacciosa agitazione sociale che, nel settembre 1920, sarebbe culminata nell’occupazione delle fabbriche. In quella fase la rivoluzione fiumana non serviva più. Giolitti imitò mutatis mutandis il realismo opportunista seguito da Cavour e Rattazzi nei loro rapporti con l’interventismo garibaldino. Uno strumento doveva servire una politica, non subordinarla. Per questo, grazie anche al ministro degli Esteri, Sforza, trovò a Rapallo un accordo più che conveniente con la divisa delegazione di Belgrado: una sostanziale conferma del Patto di Londra – a eccezione della Dalmazia, sulla cui rivendicazione le sfere militari italiane erano sempre state divise – e Fiume eretta a Stato libero, ma confinante e dipendente dall’Italia. Questo esito trovò il sostegno dell’opinione pubblica italiana, della Monarchia e, paradossalmente, di Mussolini. Lo stesso «partito militare», al di là dei lamenti delle sue parti estreme, fu soddisfatto. Badoglio, l’uomo del re che aveva fatto da collegamento con D’Annunzio, lo apprezzò. Così, con il bagno di sangue di fine 1920, si concluse un episodio che avrebbe segnato in profondità la politica italiana as a whole.
Eugenio Di Rienzo ha il merito di avercelo restituito nella sua complessità, non cedendo alla tentazione di una ricapitolazione piatta né mitologica, comunque senza rischi. Dal suo importante lavoro emerge con chiarezza un’Italia segnata da un profondo disorientamento. Politica estera e politica interna si incrociano felicemente fino ad arrivare a dipingere l’immagine della crisi dello Stato liberale che tanta parte ebbe nelle successive, e non felici, vicende del nostro Paese.