Per quanto talune interpretazioni storiografiche siano dure a morire, si potrebbe dire che alcune di esse – riferite nel caso specifico all’impresa di Fiume guidata da Gabriele D’Annunzio nel settembre 1919 e alla successiva occupazione legionaria della città del Quarnaro – abbiano perso gran parte della loro attrattiva, grazie soprattutto a una serie di studi qualificati che ne hanno certificato la sostanziale inconsistenza. Il riferimento va in particolare a quell’immagine di un D’Annunzio fiumano precursore del fascismo, che tanto a lungo ha dominato la cultura italiana del secondo dopoguerra, prima che, dagli Anni Sessanta del secolo scorso, gli studi di Nino Valeri, Roberto Vivarelli e Renzo De Felice in particolare, consentissero di porre un argine alla vera e propria damnatio memoriae che aveva cercato di affossare la figura del D’Annunzio politico (e a farne le spese era stata di frequente anche quella del letterato).
Se quella immagine resse per tanto tempo (e per certi versi trova udienza ancora oggi in alcuni settori, ridotti quanto si voglia, della storiografia e della politica in Italia), lo si deve all’opera di “appropriazione”, in molti casi “indebita”, che il fascismo portò avanti ai danni del fiumanesimo, a livello di simbologia e di “liturgia” esteriore, e nelle stesse linee-guida di una politica estera che, nel corso del Ventennio, molto sarà debitrice a quella tracciata (in modo a volte confuso) da D’Annunzio a Fiume. Questo, per concentrarsi sulla sola “facciata”, senza curarsi, in molti casi, di approfondire quelle differenze di fondo, per quanto a volte macroscopiche, che non potevano non emergere da un attento esame di due esperienze tanto diverse (e non solo per la collocazione cronologica) come quelle della Fiume dannunziana del 1919-’20 e dell’Italia mussoliniana del 1922-1943/’45.
Non si esauriscono comunque nel ben poco idilliaco rapporto tra essi le vere o presunte analogie tra fiumanesimo e fascismo. Non troppo convincente appare infatti l’attribuzione a D’Annunzio, e nella fattispecie alla Carta del Carnaro, di pulsioni democratiche e progressiste, non fosse altro per il particolare che quella Costituzione non ebbe modo di essere integralmente applicata. Molto colore, infine, nell’interpretazione “sessantottesca” del clima trovato da D’Annunzio e dai legionari a Fiume, ricostruito da Claudia Salaris in un saggio del 2006 (Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume), che non riesce comunque a competere con la cronaca quasi “diretta” stesa da Giovanni Comisso in Il porto dell’amore.
Non mancano certo le notazioni di natura storiografica, sin qui succintamente accennate, nel vasto, articolato, documentatissimo studio di Eugenio Di Rienzo, D’Annunzio diplomatico e l’impresa di Fiume (Rubbettino Editore) anche se non finiscono per occuparvi eccessivo spazio, appunto perché ormai decisamente superate, e di fatto ben difficilmente proponibili (se non con una buona dose di malafede). Non si limita, comunque, Di Rienzo, a troncare di netto il tema del rapporto tra fiumanesimo e fascismo, rifacendosi al logoro cliché di una impari lotta – con esito ovviamente scontato – fra un «dilettante» della politica come D’Annunzio e un «professionista» come Mussolini. C’è, in quel cliché, molta verità, ma il giudizio, scrive Di Rienzo, non può esaurirsi in modo così drastico, pena il veder ridurre il poeta a «uno sprovveduto capopopolo», quasi una reincarnazione, agli inizi del XX secolo, di un Cola di Rienzo o di un Masaniello. Una sorta di impasse, apparentemente irrisolvibile, che Di Rienzo cerca in parte di superare grazie a un elegante artifizio lessicale, parlando di una sostanziale «impoliticità» di D’Annunzio, di una sua «nausea per la politica», variamente condivisa con altri uomini di cultura (un nome fra tutti, Benedetto Croce).
Un «impolitico», dunque, il Comandante, uscito innegabilmente sconfitto dal confronto con Mussolini, cui in ogni modo Di Rienzo finisce per riconoscere (forse con una generosità che contrasta in parte con il giudizio di «semplice castello di carta» speso per la Carta del Carnaro), una ineguagliabile capacità di destreggiarsi tra personaggi ben più di lui adusi agli intrighi (da Badoglio a Nitti, a Giolitti a Sforza) e, per quel che concerne l’epopea fiumana, fra le tendenze di destra e di sinistra emerse in quel confuso microcosmo. Anche se, proprio per quanto riguarda il periodo fiumano, Di Rienzo dimostra, per la prima volta, in quale misura sull’organizzazione stessa dell’impresa e sui suoi sviluppi, per tutto il 1920, avessero pesato i maneggi di quei «Poteri forti», che non poco influenzarono la vita dell’Italia uscita dalla prova della Grande Guerra, condizionandone gli indirizzi economico-finanziari e le scelte politiche, approfittando del progressivo scollamento dei gangli della sovranità statale. E una vicenda come quella dell’impresa di Fiume costituiva per questi ambienti un banco di prova ideale per sviluppare tutta una serie di obiettivi – di politica interna o estera, di espansione economica o territoriale che fossero -, cavalcando il tema della “questione adriatica” fino a che si fosse rivelato in linea con essi, per abbandonarlo poi al suo destino al mutare delle prospettive.
C’è da chiedersi quale fosse stato, di fronte alle manovre poste in atto da tali «Poteri forti», il ruolo specifico di D’Annunzio a Fiume, sin dalla fase preparatoria dell’impresa e durante l’occupazione legionaria della città. Può anche darsi che di quelle manovre il Comandante fosse un semplice strumento, quanto mai utile a chi volesse servirsene come schermo, mandando in avanscoperta un personaggio già così carico di fama e di onori. Uno strumento inconsapevole, D’Annunzio, o almeno in buona parte consapevole? Dalla risposta che si voglia dare al quesito dipende il giudizio che su di lui può emergere. Totalmente negativo nel primo caso, che lo vedrebbe ridotto a un passivo zimbello privo di qualsiasi autonomia; il che contrasta con una personalità ben più marcata, pur nella sua connaturata mutevolezza. Perché non tornare, allora, al tema del rapporto fra D’Annunzio e Mussolini, non tanto a Fiume, quanto nel dopo-Fiume?
A prima vista, da una parte c’è sempre il Poeta e dall’altra il politico spregiudicato, con gli esiti già sperimentati nel 1919-’20; ma ci sarà stato pure più di un valido motivo se, anche dopo la presa del potere, nell’ottobre 1922, Mussolini non solo tenne sotto stretta, pressoché quotidiana sorveglianza l’illustre “ospite” della villa di Cargnacco, ma accondiscese puntualmente e generosamente a tante sue richieste, anche le più bizzarre e onerose per le casse dello Stato. In questo caso, non sarebbe poi del tutto fuori luogo pensare a una sorta di rivincita del Poeta nei confronti del politico. Se Mussolini continuerà, anche all’apice del proprio potere, a “controllare” D’Annunzio, questi cercherà di rispondere sfruttando consapevolmente quel senso di malcelato sospetto nei propri riguardi colto nel suo interlocutore. E non mancherà, D’Annunzio, di alimentare quel clima di sospetto (intrattenendo, magari sollecitandoli, rapporti con personaggi in odore di “fronda”, o uscendo a volte egli stesso in commenti critici verso il Regime), se non altro per alzare la posta in gioco, in termini di prestigio, e non solo.
Ma uno studio su D’Annunzio – prima, durante e dopo Fiume – non può circoscriversi a un tema come quello dei suoi rapporti con Mussolini, per quanto esso possa risultare gravido di significati e di conseguenze per la storia d’Italia. Un tema che esula dai confini stessi di un Paese, arrivando quasi a immiserire la portata di un evento (la marcia di Ronchi) che, nelle intenzioni del Comandante e di alcuni suoi stretti collaboratori, avrebbe dovuto, soprattutto dal 1920, spaziare ben oltre semplici e in fondo angusti confini territoriali. È in questo senso, e in questa prospettiva, che Di Rienzo parla espressamente, sin dal titolo del volume, di un D’Annunzio «diplomatico», intento a imporsi su una scena ben più vasta e articolata di quella rappresentata da un semplice partito politico, e a ritagliarsi un ruolo personale non di capo politico, ma di «Vate», capace di cogliere e interpretare le istanze provenienti, nei convulsi anni del dopoguerra, da tante diverse zone del mondo, toccate o meno che fossero state dal conflitto da poco cessato, o in condizioni di disagio e di sfruttamento ancora più pregresse.
Un ruolo di «diplomatico» – «senza marsina e senza feluca», per dirla con Di Rienzo – ovviamente sui generis, così come sui generis risulteranno un po’ tutte le sue iniziative al di fuori dell’ambito artistico, quello che D’Annunzio ricoprirà a Fiume, affidandone la realizzazione alla «Lega dei popoli oppressi», chiamata, in chiara contrapposizione all’esecrata «Società delle Nazioni» ginevrina, a farsi promotrice di una insurrezione a livello planetario contro il nuovo ordine creato a Versailles. Una insurrezione che, partendo dalla Fiume dannunziana, avrebbe dovuto coinvolgere, secondo i suoi promotori (a cominciare dal poeta socialista belga di origini russe Léon Kochnitzky, attorniato da un ristretto ma attivissimo gruppo di collaboratori, ai vertici dell’”Ufficio Relazioni Esteriori”, il Ministero degli Esteri fiumano), quelle nazionalità che proprio da Versailles erano risultate maggiormente colpite dalla consolidata alleanza di vecchi e nuovi «usurpatori e accumulatori d’ogni ricchezza». Una iniziativa tanto ambiziosa necessitava della partecipazione di quei popoli che avevano viste negate, o disconosciute, le proprie aspirazioni (Irlandesi, Turchi, Egiziani, Indiani, Ungheresi, Bulgari, Fiamminghi, Croati, Montenegrini, Albanesi): un variegato “esercito” in cammino, che dal Vecchio si estendeva ad altri Continenti, con una grande dispersione geografica, e che proprio nella città del Quarnaro avrebbe dovuto trovare l’ispirazione primaria per la propria avanzata. E questo per fermarsi a quei popoli da cui sarebbe venuta una adesione di massima all’iniziativa, nella quale si sarebbe cercato di coinvolgere inizialmente (con risultati a dire il vero di ben scarso rilievo, vista la scarsità di tempi, di mezzi e, perché no?, di documentazione) molti altri “attori”: Catalani, Maltesi, Gibilterra, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Siria, Palestina, Mesopotamia, Persia, Afghanistan, Birmania, Cina, Corea, Isole Filippine, Hawai, Panama, Cuba, Portorico, e “razze oppresse” come i Cinesi in California, i Negri degli Stati Uniti, gli Israeliti.
Di frequente si è cercato di inquadrare, anche cronologicamente, la vicenda della «Lega di Fiume» all’interno di quella «svolta a sinistra» che, all’incirca nella prima metà del 1920, avrebbe accompagnato nel Comando legionario la nomina del sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris a Capo-Gabinetto di D’Annunzio, in sostituzione del nazionalista Giovanni Giuriati. Che, in quel lasso di tempo, si fosse tentato di imprimere un mutamento di rotta alla linea politica del Comando, per liberarla per certi versi dalle secche in cui l’aveva tenuta bloccata l’azione frenante del Governo di Roma e delle forze moderate presenti sia a Fiume, sia in alcuni ambienti del Comando stesso, è innegabile. E il merito di tali tentativi è da assegnare, oltre che alla fama e al carisma di D’Annunzio, anche all’entusiasmo con cui Léon Kochnitzky e l’«Ufficio Relazioni Esteriori» li avrebbero portati avanti, scontrandosi ripetutamente con le varie difficoltà frappostesi, rivelatesi alla fin fine insormontabili.
È comunque sintomatico che il progetto della «Lega di Fiume», per quanto debitore al clima creatosi nella città del Quarnaro nella prima metà del 1920, fosse già stato “partorito” dalla fervida mente di D’Annunzio in un periodo precedente, quando la cosiddetta «svolta a sinistra» nell’impresa era ancora di là da venire, e anzi nemmeno ipotizzabile. Ci si riferisce in questo caso al discorso del Comandante del 24 ottobre 1919 Italia e vita (uno dei più carichi di pathos fra quelli pronunciati a Fiume), in cui erano già in nuce gli spunti e i significati ripresi poi dal progetto della «Lega». Forzando un po’ la mano, si potrebbe leggere tra le righe di quel discorso l’affacciarsi di una sorta di “terzomondismo rosso-bruno” e, magari in maniera più netta, di un “antimperialismo”, che coniugava spinte anticapitalistiche a pulsioni nazionalistiche. Un antimperialismo da D’Annunzio vissuto soprattutto in proiezione antibritannica, ma anche antifrancese e antistatunitense. E che rappresenterà una costante della polemica del Comandante, non fermandosi certo a Fiume, ma proseguendo negli anni, fino all’impresa etiopica, con l’Italia «proletaria» contrapposta alle potenze plutocratiche e alla Grande Banca internazionale nell’«eterna lotta del sangue contro l’oro»
Fascinoso che potesse essere stato il progetto lanciato già dall’ottobre 1919 da D’Annunzio, e poi ripreso nella prima metà del 1920 in modo apparentemente più pragmatico, è certo che la «navicella» (così l’avrebbe definita Kochnitzky) della «Lega di Fiume» si sarebbe di fatto arenata di fronte alle troppe difficoltà incontrate sul proprio cammino. Non si trattava, sottolinea Di Rienzo, soltanto delle difficoltà economiche – la mancanza del «nerbo della guerra» di machiavelliana memoria, lamentata dal Comandante in una lettera del 6 gennaio 1920 a Giuseppe Giulietti – ma anche delle crescenti perplessità che, in seno al Comando e del Consiglio Nazionale di Fiume, potevano aver destato alcune iniziative legate alla «svolta a sinistra» del 1920. Se al colonnello Mario Sani, personaggio in qualche modo collegato ai Servizi, non andava decisamente a genio la partecipazione di esponenti arabi al progetto della «Lega di Fiume» (e in questo caso le motivazioni potevano anche essere, nemmeno troppo velatamente, di natura “razzistica”), più chiaramente connotate in senso politico sarebbero state le preoccupazioni emerse all’interno del Consiglio Nazionale sui passi ripetutamente compiuti da Kochnitzky presso la Russia bolscevica per indurla ad aderire al progetto della «Lega». Il che spiega a sufficienza il senso di sollievo con cui, all’interno del Consiglio Nazionale stesso (non a caso guardato da alcuni ambienti più estremisti come a una vera e propria roccaforte di “irriducibili conservatori”), furono accolte, nel luglio 1920, le dimissioni del responsabile dell’«Ufficio Relazioni Esteriori». Ancora più in generale, infine, non si può certo dire che le personalità dei rappresentanti dei «popoli oppressi» entrati in qualche modo in contatto con i responsabili della «Lega» (da D’Annunzio al circolo ruotante intorno a Kochnitzky) fossero tali da destare soverchia fiducia nei loro interlocutori del momento.
Ce n’era a sufficienza, dunque, perché il progetto della «Lega di Fiume» conoscesse di fatto un calo di tensione rispetto a quel “respiro” universale che gli avrebbero voluto assegnare sia D’Annunzio sia, in modo più “estremistico”, Kochnitzky. A dire il vero, il fallimento di quel progetto non rimase un fatto isolato, ma arrivò a interessare anche quella politica degli «intrighi balcanici», sulla quale finalmente il volume di Di Rienzo fa piena luce, che, nella seconda metà del 1920, avrebbe tenuto impegnato il Comando fiumano. In teoria, le prospettive offerte in quel periodo non erano soltanto più limitate di quelle in precedenza tracciate e propugnate dall’«Ufficio Relazioni Esteriori», ai cui vertici all’idealista Kochnitzky era nel frattempo subentrato il più pragmatico Eugenio Coselschi. Le tendenze nazionaliste, già chiaramente emerse nella politica fiumana negli ultimi mesi del 1919, avrebbero ripreso un certo vigore, a detrimento magari di quelle posizioni sinistreggianti, con punte in qualche caso anarcoidi, che non poco avevano in precedenza turbato tanti ambienti, della città e delle stesse forze legionarie, tutt’altro che disposti a venire meno al senso della lealtà istituzionale in taluni casi o alla difesa di consolidati interessi economici e sociali in altri.
Oltretutto, quella che verrà sintetizzata nella formula «intrighi balcanici» non faceva altro che riprendere, come scrive Di Rienzo, le linee direttrici di una politica che, praticamente dalla fine del conflitto mondiale, aveva visto ben determinati ambienti politici, militari, economici decisamente favorevoli a una espansione italiana in Adriatico e nei Balcani, approfittando delle tensioni evidenziatesi all’interno della Jugoslavia e delle diffuse tendenze antiserbe. Sembravano dunque esistere validi presupposti perché la politica degli «intrighi balcanici», meno pretenziosa di quella, in precedenza fallita, della «Lega di Fiume», potesse essere invece destinata al successo, cui alcuni gruppi etnici (perfino quello croato) sarebbero stati pronti a sacrificare, in proiezione antiserba, la stessa radicata contrapposizione agli ambienti nazionalisti italiani e al Governo di Roma. Nonostante lo stesso D’Annunzio si fosse speso di persona nell’organizzazione degli «intrighi balcanici», scavalcando a volte alcuni suoi collaboratori (come quel Giuriati tornato prepotentemente in auge nella seconda metà del 1920), anche quel più limitato progetto era comunque destinato a restare di fatto sulla carta.
In questo caso, a pesare sul nuovo fallimento della politica estera del Comando poterono essere da una parte la scarsa attendibilità degli interlocutori balcanici, come nota Di Rienzo, non certo tale da invogliare la controparte italiana (si trattasse del Governo di Roma o degli ambienti industriali e bancari che avrebbero dovuto garantire i necessari finanziamenti) a compromettersi più di tanto con essi. Dall’altra parte, ed è ancora Di Rienzo, ad affermarlo c’era da tenere in conto un più cauto atteggiamento del Gabinetto Giolitti che, pur per tanti versi attratto dalla prospettiva di una espansione economica e strategica italiana nei Balcani, non era tuttavia propenso a un impegno diretto, pronto sì ad approfittare di un eventuale successo dell’intera operazione e ad accaparrarsene il merito, ma altrettanto a disconoscere le proprie responsabilità in essa e a farle se mai ricadere su D’Annunzio, usato come un comodo “parafulmine”. Si faceva oltretutto strada, a Roma, la necessità di cercare un accordo diretto con Belgrado (come avverrà con il Trattato di Rapallo); un più lineare atteggiamento, che non poco influì sulla riluttanza (con cui D’Annunzio e i suoi collaboratori si sarebbero scontrati) di vari settori politici e imprenditoriali ad assumere impegni finanziari troppo onerosi, in mancanza oltretutto di valide garanzie dalla controparte.
Un fallimento dopo l’altro, dunque, per la politica estera del Comando dannunziano? Nonostante le apparenze, non giunge certo a simile drastica conclusione lo studio di Di Rienzo, che tende se mai, per sua stessa ammissione, a una «sprovincializzazione» dell’impresa fiumana, destinata a perdere quel carattere di unicità in cui D’Annunzio e molti legionari prima, il fascismo (più o meno convintamente) poi, avevano cercato di relegarla e quasi “imbalsamarla”. Altro non sarebbe stata, Fiume, che un «focolaio» (uno dei tanti spuntati dopo il novembre 1918 dentro e fuori dell’Europa, in una sorta di prosecuzione di una «guerra dopo la guerra»), che in teoria avrebbe anche potuto trasformarsi in un più vasto incendio. Un focolaio che, nel caso specifico, avrebbe visti contrapposti – come scrive Di Rienzo – «il revanscismo» dell’Italia, ultima arrivata, in ordine di tempo, al tavolo delle Grandi Potenze, e con le lacerazioni di una umiliante vittoria mutilata, «e l’imperialismo straccione del neonato Stato degli Slavi meridionali».