Il libro di Gigi di Fiore, “Napoletanità dai Borbone a Pino Daniele. Viaggio nell’anima di un popolo”, edito dalla Utet, è il tributo, commosso e tormentato, offerto da un napoletano vero a Napoli, città magnifica e piena di squallore, solare e oscura, paradisiaca e cimiteriale, ebbra di vita e innamorata della morte. Una grande metropoli, che profuma e maleodora di Africa e Oriente. Una patria dell’anima che si ama e si odia come si venera e si disprezza, una madre-matrigna, una “Grande meretrice”, coperta di stracci e di gemme, dalla quale non ci si riesce a distaccare (nec tecum nec sine tecum), se non amputando una parte di se stessi.
Con questi sentimenti ambivalenti Gigi di Fiore ci conduce per mano lungo un itinerario di geografia urbana che riesce sempre a sorprendere e a raccapricciare: dagli splendori della città angioina e barocca alla “terra desolata” dei ghetti del centro storico, limitrofi al decumano e a via Toledo, all’immenso hinterland della città vesuviana, dove veramente, per citare il titolo del dolenteromanzo di Anna Maria Ortese, “il mare non bagna Napoli”. Ed è un viaggio che prosegue nel tempo e nella storia. Da Napoli capitale del Regno a semplice capoluogo di un’Italia malamente unificata, dalle illusorie speranze, nutrite durante il fascismo, di riconquistare la passata grandeur,alla tragedia della guerra, alle difficoltà di un difficilissimo dopoguerra che la stagione della ricostruzione e quella dell’effimero “miracolo economico” non riuscirono ad alleviare. Una storia che l’autore di Napoletanità segue fino quasi ai nostri giorni, quando Napoli, ferita a morte dalla scomparsa di Benedetto Croce, depauperata dell’emigrazione di una parte considerevole delle sue migliori leve intellettuali, fuoriuscite a Roma per meglio sfruttare i propri talenti, si ritrovò orfana del ruolo di “capitale della cultura”, che le aveva consentito di rivaleggiare, molto spesso vittoriosamente, con le altre capitali del sapere, Firenze, Torino, Milano.
Ma torniamo al titolo del volume di Gigi di Fiore. Per l’autore, la “Napoletanità” rimanda a un senso di appartenenza privato e collettivo, attivo e orgoglioso. Essere Napoletani significa, infatti, sentirsi legati da un vincolo identitario, mai ripiegato nel rimpianto o nel rancore, per quella“Nazione napoletana” che, anche dopo il 1860 e il 1945, tra immense perdite, lutti, miserie, degradazione materiale e morale, non ha perso la capacità di proiettarsi nel futuro. Esiste, però, un altro sentimento che anima gli eredi dell’antica colonia greca, e che serpeggia dalle linde palazzine tardo liberty del Vomero agli squallidi casermoni-dormitori di Scampia con le sue generazioni perdute e le sue piazze di spaccio a cielo aperto. Si chiama “Napolitudine”. Ed è uno stato d’animomolto diverso dalla sensazione di malinconia, assimilabile alla saudade lusitana, che coglie i Napoletani nel momento in cui si allontanano dalla città del golfo e che risuona nelle ballate di Pino Daniele divenuto post morten una sorta d’icona municipale. Uno stato d’animo molto differente, anche, dalla degradazione della “Napoletanità”, a maschera da commedia dell’arte, indossando laquale, come ripeteva Raffaele La Capria, “i napoletani recitano la parte del napoletano”, per assecondare i giudizi stereotipati costruiti sulla loro pelle dai non napoletani e anche ahimè, dai napoletani stessi. “Napolitudine” è piuttosto lo struggente e a volte distruttivo rimpianto per un grande passato perduto e, insieme, la consapevolezza amarissima che quel passato è destinato a non tornare mai più. E’ la celebrazione quotidiana di un lutto, comparabile, mi pare, alla tristezza» (hüzün) di Istanbul, pudica al cospetto degli altri, ma interiormente lacerante per chi è condannato a viverla ogni giorno, di cui ha splendidamente scritto Orhan Pamuk.
“La parola hüzün è di origine araba e insieme al suo sinonimo afflizione compare nel Corano. Il fatto che si definisse “della tristezza”, l’anno in cui morirono Hatice, la moglie di Maometto, e lo zio del Profeta Ebu Talip, dimostra che la parola hüzün esprime un sentimento causato da una grave perdita spirituale. L’hüzündefinisce, infatti, non il dolore che affligge il singolo ma quello che tormenta una cultura, un ambiente, una città. E se l’hüzün è il sentimento che accomuna, a Istanbul, tutti i suoi abitanti, questo accade perché lì, a differenza di quanto accade nelle città occidentali, con l’eccezione forse di Napoli e Palermo, le vestigia dei Regni e degli Imperi del passato non sono protette ed esposte come in un museo. Qui le rovine del passato convivono con la città del presente, e ricordano, ossessivamente, a tutti gli Stambulioti che la forza e la ricchezza del passato sono scomparse, che il presente è così povero e confuso da non poter neppure essereparagonato al tempo che fu. Questi monumenti, ormai inglobati nell’ambiente, in mezzo alla sporcizia, alla polvere, al fango, non concedono neanche più, per la loro trascuratezza, a chi vive tra di essi, il piacere dell’orgoglio”.
Che l’hüzün possa però trasformarsi da interiorizzata e schiva malinconia a rabbia dei vinti, lo ha ricordato proprio Pamuk, richiamando le origini remote del violento pogrom, scatenato nel 1955,dagli abitualmente miti e pacifici cittadini di Istanbul, contro la comunità greca e armena della città,in occasione della crisi turco-greca che aveva come posta del gioco l’isola di Cipro. La domanda da porsi allora è se anche nella “Napolitudine” sia contenuto, non certo un seme della violenza ma almeno un sentimento di rivalsa dagli esiti incontrollabili, di cui qualche sintomo appare nella crescita ormai anche politica del movimento neoborbonico, e nella ripetizione da parte del sindaco, Luigi De Magistris del mantra del “primato napoletano”, così caro al borbonismo post-unitario. Tutto questo potrebbe rappresentare, infatti, il brodo di cultura di un’altra categoria mentale. Quelladel “Napoletanismo”, inconsapevolmente derivata dal “Sicilianismo”, analizzato, impietosamente,da due grandi intellettuali siciliani, di antica scorza: Leonardo Sciascia e lo storico Giuseppe Giarrizzo.
Se per Sciascia quel sentimento poggiava su “un corpus piuttosto confuso e contraddittorio di privilegi nazionali e di classe, di tradizioni, di costumi, di abitudini, ritenuti perfetti e superiori”, la cui ideazione scaturiva, in grandissima parte, “dalla follia siciliana, che tuttora esiste ed esercita un suo fascino anche sui non siciliani”. Né meno tagliente era il giudizio di Giarrizzo che definiva il “Sicilianismo” come un’utopia regressiva fondata “su di un immaginario primato culturale ed economico della Sicilia conculcato dalla dominazione continentale, che nasceva dalla contrapposizione settecentesca tra monarchia napoletana e classi dominanti dell’isola, e che riprendeva vigore nell’Ottocento preunitario nel conflitto tra riformismo borbonico e aristocrazia palermitana, per saldarsi, a cavallo del XIX e del XX secolo, con la polemica meridionalistica contro lo Stato unitario nordista e accentratore”.
E di “Sicilianismo” ci parla ancora, Orazio Cancila, un altro storico, nato sotto l’emblema giallo-rosso della Trinacria, nella meritoria ristampa, fatta da Rubbettino Editore, del corposo, documentatissimo volume, avvincente, però, come un romanzo di Federico De Roberto che illustra l’ascesa, la caduta e il crollo di una grande famiglia oriunda palermitana: I Florio. Storia di una dinastia imprenditoriale.
Tutto ebbe inizio con Tommaso Florio a metà Seicento in Calabria, a Melicuccà, e poi a Bagnara, dove il figlio Domenico e quindi il nipote Vincenzo esercitano il mestiere di fabbro. L’ascesa cominciò con Paolo e Ignazio, figli di Vincenzo, sbarcati a Palermo a fine Settecento per dedicarsi al redditizio commercio di prodotti di drogheria acquistati a Livorno, Genova, Marsiglia. Con Vincenzo, figlio di Paolo, la ditta si trasformò in una holding: dal commercio all’attività finanziaria, dalla pesca del tonno alla produzione vinicola e zolfifera. La svolta decisiva si legò alle nuove occasioni offerte dallo sviluppo della navigazione a vapore: Vincenzo senior e il figlio Ignazio colsero l’onda della modernizzazione e crearono una flotta, che consenti loro di entrare a pieno titolo nella ristretta cerchia della high life cosmopolita.
Come sostiene Cancila, il nome dei Florio di Palermo, che oggi ricorda soltanto una marca di liquori, nella seconda metà dell’Ottocento equivaleva, per importanza, nel campo della navigazione mercantile a quello che, nel nuovo secolo, sarà il nome degli Agnelli di Torino nell’industria automobilistica e degli Ansaldo di Genova nella manifattura siderurgica, nella cantieristica, nella fabbricazione degli armamenti navali e aerei. Il brand Florio era noto in Italia. Ma lo era anche all’estero, perché i cento piroscafi della flotta Florio solcavano tutti i mari del mondo, si avventuravano nelle rotte transoceaniche, immettendo i prodotti di quel marchio (vini e tonno in scatola), già apprezzati nel mercato interno, anche in quello internazionale.
I primi segni della crisi giunsero dopo la morte di Ignazio Florio nel 1891. Il suo successore,Ignazio junior, non arrivò a cogliere i segni del declino e continuò a vivere nel suo mondo dorato assieme alla moglie, l’affascinante donna Franca, nata Jacona della Motta dei baroni di San Giuliano. Una perfetta bellezza mediterranea ammirata dal Kaiser, Guglielmo II, che le conferì il titolo di “Stella d’Italia”, celebrata da poeti e artisti: Boldini, Pietro Canonica, D’Annunzio che ribattezzò la regina incontrastata della Belle époque palermitana con l’appellativo di “Unica”. Il risultato fu la lenta dissoluzione dell’impero economico ereditato, insieme al fratello Vincenzo, l’inventore della famosa Targa Florio, nonostante i tentativi di salvataggio operati dai vari governi italiani, da Giolitti a Mussolini. E, alla fine, anche i Florio, non senza loro grave responsabilità, scrive Cancila, citando un aforisma americano dedicato alle famiglie di immigrati “che iniziarono in maniche di camicia, e nel corso di tre generazioni si ritrovarono in maniche di camicia”, finironoanch’essi descamisados come già furono i loro antenati calabresi.
In mezzo al guado di una dinamica irreversibile che avrebbe portato alla rovina definitiva, consumatasi nella metà degli anni Trenta, Ignazio Florio sposò appassionatamente la filosofia del “Sicilianismo”, senza rendersi conto che quella consolatoria e illusoria “favola bella” avrebbe rivelato tutte le sue incongruenze proprio nella trasformazione da moto d’animo a progetto politico.Come ha annotato, infatti, un altro grande storico siciliano, Francesco Renda, la rivendicazioneretorica di un immaginato ma inesistente primato siciliano divenne il fattore trainante di un’ideologia sostanzialmente conservatrice che compattava, senza possibilità di uno sbocco progressivo, un blocco interclassista d’interessi meramente corporativi, accomunando, nel segno della sconfitta, ceti borghesi e partiti popolari. Il “Sicilianismo” della fine del XIX secolo esisteva, infatti, unicamente come “prodotto di scontento economico e di disagio politico e morale, il qualepuntava tutte le sue carte sulla narrazione recriminatoria delle contraddizioni e delle manchevolezze che sempre più tendevano a penalizzare lo sviluppo siciliano nel rapporto con lo svilupponazionale, traendone occasione non per individuarne le cause autoctone, ma per rovesciarne le responsabilità sullo Stato e ancora più genericamente sul vorace e predatorio capitalismosettentrionale”.
In conclusione il ricorso al “Sicilianismo” fatto dai Florio, e con loro da numerosi imprenditori, politici, intellettuali isolani, non rappresentò un sussulto d’orgoglio ma, piuttosto, costituì la ricerca di un alibi. E fu soprattutto la testimonianza di un fallimento storico che segnò per l’isola l’impossibilità di divenire uno dei motori della locomotiva Italia nel tragitto verso le sperate “magnifiche sorti e progressive” che dovevano garantire anche al Mezzogiorno un approdo compiutamente europeo.
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