Da Vanity Fair del 22 giugno
Il Pd si è salvato a Milano, città laboratorio dove si sfidavano due manager e dove al ballottaggio Giuseppe Sala ha battuto Stefano Parisi. Insomma: #ciaone.
Altrove però si vede in tutta la sua evidenza il grande problema del partito di Matteo Renzi: la classe dirigente, sia vecchia sia nuova. A poco è servito, nelle due settimane di campagna elettorale per il ballottaggio, provare a dipingere Chiara Appendino e Virginia Raggi come due fanatiche o ad appigliarsi, come nel caso di Roma, alle richieste di avviso di garanzia per presunte anomalie nell’affidamento dell’Asl di Civitavecchia di due incarichi di recupero crediti. È lo stesso errore compiuto dalla sinistra con Berlusconi per un paio di decadi: cercare di battere l’avversario non politicamente ma per via giudiziaria. Le due nuove sindache di Torino e Roma non hanno niente in comune con lo sciachimismo dei Carlo Sibilia e delle Paola Taverna, con la sindrome da Club Bilderberg sempre in agguato. Anzi, verrebbe da dire che erano tutto fuorché candidate antisistema, come da narrazione del partito di Grillo. Segno che il M5S può cambiare, istituzionalizzarsi, persino farsi establishment. Ed è lì che diventa un problema per il Pd specie in caso di elezioni politiche, visto che l’Italicum, la nuova legge elettorale, prevede il secondo turno. Se prendessimo per buono quel che arriva dalle urne di domenica e lo proiettassimo a livello nazionale, dovremmo dire che il Pd è in grado di battere il centrodestra (Milano, Bologna) ma può perdere la sfida diretta con il M5S (Torino, Roma), anche se candida personalità dignitose come Piero Fassino.
Chissà che cosa pensa il presidente del Consiglio del segretario del Pd. Di certo Renzi 1 non può essere soddisfatto di Renzi 2. Anche perché il segretario del Pd se n’è abbastanza fregato del partito, considerandolo un fardello e preferendo il ruolo da premierrockstar. Eppure viviamo un periodo di crisi dei partiti convenzionali e la gente trova risposte altrove. Magari si ritira nel privato e nel disimpegno, oppure trova nuove forme di associazione politica. Il Pd e Renzi sembrano soffrire oggi di quei sintomi di cui parla il compianto politologo Peter Mair in un suo libro recentemente tradotto in Italia, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti (Rubbettino). «I partiti possono ancora fornire la piattaforma necessaria ai leader politici – scrive Mair – ma questa piattaforma è utilizzata nei fatti come rampa di lancio per raggiungere altri uffici e posizioni. I partiti stanno quindi fallendo come risultato di un processo di mutuo indietreggiamento o abbandono, in cui i cittadini si ritirano verso una vita più privata o si rivolgono a forme di rappresentanza più specializzate e specifiche, mentre i leader di partito si ritirano nelle istituzioni, traendo i loro termini e modelli di riferimento più facilmente dai loro ruoli di governatore o funzionari pubblici». Per attualizzare: Renzi si è chiuso nel suo Palazzo Chigi e non esce di lì da due anni e mezzo. È il simbolo della politica chiusa nelle istituzioni ed è paradossale per chi come Renzi è arrivato al governo, seppur senza elezioni, presentandosi come voce del popolo contro i vecchi bolliti distanti dalla gente.
Ma da queste amministrative non arrivano messaggi squillanti solo per il Pd. Anche Matteo Le Pen Salvini può trarre qualche lezione. A Roma ha sostenuto Giorgia Meloni ed è rimasto fuori dal ballottaggio. A Milano ha sostenuto al secondo turno Parisi e ha perso. Ha perso pure a Bologna e a Varese, città di Umberto Bossi, che fino a domenica è stata per 23 anni nelle mani della Lega, e oggi il partito di Salvini è all’opposizione in dodici capoluoghi di provincia proprio in Lombardia. Parisi con il lepenismo non c’entra nulla ed è riuscito a sfiorare la vittoria senza berci e senza esagerazioni. Il salvinismo invece cresce e funziona solo quando si brandiscono invasioni straniere che non esistono, quando si gioca con le paure delle persone. Il salvinismo è la malattia infantile del populismo.
di David Allegranti
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