dall’Avvenire del 25 Giugno
Enzo Ciconte non ha dubbi: «Quello lanciato sabato da papa Francesco è un messaggio potente, i cui effetti si vedranno nel tempo». Docente universitario a Roma Tre e a Pavia, Ciconte è stato il primo studioso a pubblicare, già ne11992, una ricostruzione storica delle vicende della ‘ndrangheta. Da allora, la sua ricerca si è estesa e approfondita di titolo in titolo, fino al recente Politici (e) malandrini, edito da Rubbettino.
E la religiosità, professore? È vero che i ‘ndranghetisti sono così devoti?
Considerano san Michele il loro protettore, invocano la Madonna, si ricoprono di santini e catenine, è vero. Ma non è religiosità, semmai un paganesimo che si riveste di cristianesimo per ragioni di convenienza. Nelle campagne calabresi dell’800 il modo migliore per acquisire popolarità e consenso consisteva nel presentarsi come fedeli devoti, buoni cattolici che si prendevano cura dei bisogni della comunità. Un elemento funzionale, dimostratosi utile fino a non molto tempo fa. Non escludo che esista una minoranza di ‘ndranghetisti in paradossale buona fede, convinti di poter tenere insieme religiosità e condotta criminale. Ora che il Papa ha parlato di scomunica, potrebbero verificarsi ripensamenti, conversioni. Il discorso, però, è più ampio.
A che cosa si riferisce?
I mafiosi non sono gli unici interlocutori dell’omelia di Francesco. Questa era stata la scelta di Giovanni Paolo II ad Agrigento ed era stata, ci tengo a sottolinearlo, una scelta più che opportuna in quel momento. Un altro messaggio di eccezionale potenza, che evocava il giudizio di Dio ed esortava appunto alla conversione. Con papa Bergoglio la logica si evolve. Affermare che i mafiosi sono fuori dalla comunione della Chiesa significa chiamare in causa tutta la società, facendo venire meno l’alibi di chi si era finora illuso di accomodarsi in una sorta di convivenza con la criminalità organizzata. Francesco fa appello al popolo, com’è nel suo stile. Decisivo è poi il terzo interlocutore.
Quale?
La Chiesa stessa, chiamata a combattere il male rappresentato dalle mafie, contrastandolo e allontanandolo. Su questo occorre essere particolarmente chiari: qui non sono in questione singoli episodi (che purtroppo non sono mancati ) di sacerdoti o religiosi collusi con la criminalità. La prospettiva da adottare è, ancora una volta, di tipo storico. Dall’Unità d’Italia in poi la Chiesa ha dovuto fronteggiare due grandi avversari ideologici, il liberalismo anticlericale da una parte e il comunismo ateo dall’altra. Questo ha impedito una presa di posizione tempestiva nei confronti della mafia, che per molto tempo non è stata percepita come un nemico. Era una realtà sotto diversi aspetti diversa dall’attuale, ancora lontana dall’ escalation degli ultimi decenni. Un’organizzazione criminale, su questo non ci sono dubbi, ma al Sud poteva capitare che, nella stessa famiglia, uno dei figli andasse in seminario e l’altro fosse affiliato alle cosche. La svolta è venuta con la caduta del Muro di Berlino, e cioè con il dissolversi delle ideologie ostili. È stato allora che, in un quadro mafioso ormai drammaticamente cambiato, la Chiesa ha iniziato la sua azione di contrasto. Il discorso di papa Wojtyla ad Agrigento è del 1993, come il martirio di don Pino Puglisi. E un anno dopo viene l’uccisione di don Diana. La mafia, punta sul vivo, reagisce».
Dobbiamo aspettarci qualcosa di simile in Calabria?
Non penso. La ‘ndrangheta non ama le azioni clamorose, non si mette in mostra. Conta su una rete di consenso capillare, ed è li che va colpita, stanata. Esattamente come ha fatto il Papa con la scomunica
di Alessandro Zaccuri
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