Da La Domenica del Quotidiano del Sud dell’1 marzo
É un’analisi attenta quella di Carla Benocci, che passa in rassegna due storiche famiglie del Mezzogiorno, i Ruffo di Calabria e i Dora Pamphili in Basilicata, per dimostrarne la capacità di adeguarsi alle trasformazioni sociali-politiche, autentici Gattopardi, in grado di conservare il potere malgrado l’avvento di un differente sistema politico. “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la Repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, afferma Tancredi rivolgendosi al proprio zio, il principe Fabrizio Salina, protagonista del romanzo di Tomasi di Lampedusa. Il principe conosce bene come gli equilibri sociali siano mutevoli ma più volte si rifiuta di scendere in politica “Appartengo ad una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà di ingannare se stesso, questo requisito essenziale per chi voglia ingannare gli altri”. Quindi ribadisce più volte la resistenza al cambiamento che ha sempre caratterizzato l’isola e i suoi abitanti: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti, Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della Terra”. Il riferimento è a suo nipote Tancredi, deciso a sfruttare i cambiamenti in atto per restituire prestigio alla sua famiglia, venendo a patti con le nuove forme politiche che contraddistinguono il paese. Così è anche per i Ruffo di Calabria, capaci di salvaguardare fino agli inizi dell’Ottocento un notevole potere politico ed economico, espressione di una classe dirigente illuminata e liberale. La conferma arriva da un esperimento come quello di San Lucido che vedrà l’applicazione di modalità di gestione di stampo illuministico, oggetto di rilevamenti cartografici moderni e funzionali alla raffigurazione esatta dei confini, o dal progetto di rifondazione di Sant’Eufemia, insediamento posto in un luogo fortemente strategico, nel segno di forme più eque di tassazione, dopo il terremoto del 1783. Lo stesso Fabrizio Ruffo di Bagnara, il cardinale sanfedista, che guiderà l’esercito di briganti alla conquista del Regno di Napoli, è tutt’altro – ci ricorda l’autrice – che un personaggio negativo, legato a una concezione della Chiesa e del re quasi medievale, è piuttosto esponente di un mondo progressista pur restando fedele alla monarchia e alla Chiesa. L’autrice dimostra come l’interpretazione del personaggio giunta fino a noi risenta del pregiudizio legato a un Mezzogiorno arretrato, incapace di risorgere senza le istanze liberali promosse con l’unità nazionale. Mentre lo stesso governo di Ferdinando IV aveva visto l’appli – cazione in campo economico e sociale di principi illuministici. Del resto, sarà lo stesso Fabrizio, che vedremo compiere una rapida carriera ecclesiastica, nominato Tesoriere generale della Camera Apostolica, a promuovere moderne riforme fiscali nello Stato Pontificio, per poi rientrare nel Regno di Napoli, dove sarà nominato da Ferdinando IV Soprintendente dei Reali Dominii di Caserta e dell’insediamento manifatturiero di San Leucio, i due complessi più moderni del Regno. Anche quando sarà alla guida dell’esercito della Santa Sede, avrà come obiettivo quello di favorire la pacificazione tra vincitori e vinti, giungendo a trattare la resa di Castel del Nuovo con grande attenzione per la libertà degli insorti. Scrive Carla Benocci “L’attivismo del cardinale Fabrizio mal si coniuga con il disinteresse per le questioni economiche e politiche del principe di Salina, seguendo la chiave di lettura delineata all’inizio dello studio; diverso è però il periodo storico di riferimento e le nuove istanze economiche, espressione di uno spregiudicato ceto borghese in ascesa non si sono ancora fatte adeguatamente sentire nell’età del cardinale Fabrizio. Tuttavia, sembra evidente che tra quest’ultimo e il suo omonimo principe Fabrizio esiste una continuità di intenti, essendo ambedue appartenenti ad una classe colta, raffinata, portatrice di valori morali e sociali settecenteschi, che proprio a partire dalle vicende che il cardinale indirizza con la sua opera si avvia verso l’abbandono della gestione della cosa pubblica, esteso anche oltre l’unità d’Italia”. Certo, proprio l’eversione della feudalità determinerà un ridimensionamento del potere dei Ruffo, che si riveleranno incapaci di trasformare le procedure di gestione delle proprietà secondo criteri latifondistici. Ad emergere anche la notevole litigiosità dei gruppi familiari, divisi dalla spartizione di debiti e crediti, con non pochi effetti sulla consistenza delle fortune familiari. Anche scelte come quella del restauro delle decorazioni e rivestimenti marmorei della cappella dedicata a San Nicola di Bari e San Filippo Neri nella basilica di San Lorenzo in Damaso in Roma, commissionate dai Ruffo nel 1849, nel momento in cui viene restaurato il potere temporale del papa, si caricano di un valore forte, a ribadire l’ap – partenenza al potere del Re e del Papa. Grande l’attenzione rivolta dalla famiglia alla collezione di opere d’arte, in particolare per quel che riguarda il ramo dei Ruffo della scaletta di Sicilia, facente capo ad Antonio Ruffo e dei due rami calabresi del cardinale Tommaso Ruffo di Bagnara e di Guglielmo Ruffo, principe di Scilla. Ad emergere l’interesse verso la produzione pittorica contemporanea, in particolare di aree come Napoli, Venezia ed Emilia Romagna e per la pittura fiamminga. “Non bisogna dimenticare – scrive Benocci – che il mecenatismo artistico dei Ruffo spazia in un vasto panorama di generi, come le statue di Pietro Bernini per la cappella Ruffo nella chiesa dei Gerolamini a Napoli. La celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia ha portato alla conoscenza del pubblico e degli studiosi una selezione di opere provenienti da un’interessante collezione di quadri del principe Fulco Ruffo di Calabria, costituita da opere di importanti pittori napoletani, veneti e fiamminghi e da una Sacra Famiglia attribuita a Raffaello, collezione ospitata nel castello Ruffo di Sicilia, residenza-simbolo familiare perduta dal Ruffo nel 1808 a seguito dell’abolizione della feudalità e delle successive leggi eversive…”. Colpisce, invece, la collezione di 117 fotografie custodita dall’Archivio Ruffo di Bagnara, comprendente le immagini di eccellenti fotografi italiani e stranieri dedicati alla documentazione di luoghi particolarmente significativi per la storia della famiglia, oltre che di moda nei viaggi tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. A conferma dell’interesse della famiglia, a partire dalla metà dell’Ottocento, per le nuove forme d’arte. Ed appare un Gattopardo sui generis anche il principe Filippo Andrea V, della famiglia dei Doria Pamphilj in Basilicata, che considera il proprio Stato di Melfi in Basilicata come un rifugio “nei tempi calamitosi” romani legati alla seconda Repubblica del 1849, ma dove si possono sperimentare significative innovazioni nel governo del territorio, i cui risultati sono poi applicati anche alle proprietà romane. La conferma arriva da un processo di analisi del territorio condotto con metodi scientifici, evidenti nelle numerose carte e planimetrie delle proprietà disegnate da agrimensori. Del resto, a contraddistinguere i Doria Pamphilj è proprio la capacità di abbinare le capacità mercantili di Andrea Doria il culto dell’immagine della famiglia papale Pamphilj, l’adesione alle idee liberali, senza mai venir meno alle fedeltà alla Chiesa. La peculiarità del suo essere Gattopardo è nell’attenzione che dedica alle sue terre, risiedendovi spesso negli anni giovanili e controllandone sempre da vicino l’andamento produttivo, senza però mai aderire alle nuove istanze politiche anticlericali e repubblicane che precedono e seguono in diversa misura il processo di unità nazionale. Lo vedremo cedere gradualmente la proprietà delle sue terre agli stessi coloni e mercanti a partire dalle leggi contro la feudalità e poi ancora nella seconda metà dell’Ottocento, mantenendo però la proprietà dei nuclei più importanti del suo Stato, dismessi a partire dalla riforma agraria degli anni Quaranta del Novecento fino agli anni Cinquanta, ad opera del principe Filippo Andrea V, il primo sindaco di Roma capitale dopo la liberazione.
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