Napoli, un giornalista di nera immerso nella città dalle mille contraddizioni, e una scrittura lieve, ironica, malinconica per dire che passiamo la vita fianco a fianco ai mozziconi, ai guappi, al mare, ai palloni, a momenti spesi e accesi dello stesso spettacolo che amiamo e che chiamiamo ritorno a casa.
“Un giorno di questi” di Marco Ciriello, edito da Rubbettino, ha interrotto la sua corsa per lo Strega arenandosi tra i quaranta, ma resta comunque un particolare sguardo sulla città ‘e Pulecenella, lungo una linea d’orizzonte – sempre nel solco identitario – che si spinge appena al di là dell’ordinario, frugando tra aspetti che non cascano in descrizioni là davanti la notizia, ma vanno oltre l’apparenza della cosiddetta realtà. Giorni comuni e indimenticabili. Gli scrittori e i luoghi camminano insieme da sempre, e Ciriello che è pure giornalista ne restituisce un ritratto intenso, leggero e letterario sul genere del reportage, secondo un andamento frammentario, brevità fatta di istanti e di silenzi, che permettono dettagli di un’unica foto e che altri stralci mancanti restino parte dell’immaginario. È un altro modo di ascoltare.
La vocazione rimane quella del cronista, e l’artefice stesso si fa protagonista, dotando il racconto del profilo di un diario dei giorni, un personaggio che si muove nelle stagioni napoletane come in un abbandono fantastico ma tutto appartenente alla voce sparsa tra la realtà e i luoghi. In questo percorso l’alito popolare si impone con tutta la sua forza, denso, coinvolgente. Siamo negli anni Ottanta e c’erano due giornali, il Grande e il Piccolo, e nel secondo lavorava il protagonista, “un sopravvissuto, uno che vaga in un tempo non suo e che torna in una città che gli è estranea”. Gli tocca ricomporre una foto che possa guardare intera, nel tempo del ritorno che pare non passi; una festa distratta invece la partenza.
Ciriello ha voluto restituirci il posto delle fragole, rileggendolo attraverso lo scavo della narrazione
Fermo alla finestra per qualche istante, osservando le persone e immaginando che si muovano ancora secondo il senso quasi mitico di quegli anni, quell’atmosfera e quell’idea contradditoria legata a una città complessa e difficile, a frugare tra la munnezza e le spiagge col sole tutto l’anno; l’inciampo nel terrore della camorra e il passo lesto del pibe de oro, Maradona che, anche se era meglio Pelé, s’è fatto amare in un paese diverso dal suo quanto e più di un figlio; e ancora il farfugliare scanzonato di Massimo Troisi e la parola d’inciampo di Giancarlo Siani morto per troppa verità.
Ciriello ha voluto restituirci quel paesaggio per luoghi e figure, senza simulare discorsi ad alta voce, niente di più di tutto ciò che contava, né limbi né giorni possibili, ma rileggendolo attraverso lo scavo della narrazione, per arricchirlo di fascino e di significato emblematico, posto delle fragole entro cui situare Vomero babà oroscopi e scippatori. Ed è riuscito, in quello che è un viaggio introspettivo tra vicende politiche e mutamenti sociali, a sviscerare l’animo di un popolo attraverso i suoi personaggi, quelli che hanno nel bene e nel male spalancato le porte che danno sulla strada, in una città in cui si rincorre sempre l’ultimo passaggio, quello del racconto.
Chiamato a raccolta Ciriello ha voluto per questo restituire la città anche nella penombra della notte vuota, un altro modo di ascoltarla è stata raccontarne l’assenza rumorosa nelle mattine dissolte, quando invece il cielo compatto e il mare dal riflesso ininterrotto scandiscono le sue miserie e le sue glorie.
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