Pensavo di trovarmi davanti a un libro sul rapporto madre e figlia, quando ho iniziato a leggere “L’eredità dei vivi” di Federica Sgaggio, edito da Marsilio. Ma fin dalle prime pagine mi è stato chiaro che era molto più ampio e complesso l’universo a cui stavo accedendo. Sgaggio racconta sostanzialmente la storia di sua madre, Rosa Sammarco vedova Sgaggio, nata a Solofra in provincia di Avellino e morta a Verona. Ma la storia di questa donna è parte di una narrazione collettiva in cui il singolo diventa universale e l’universale appartiene con chiarezza a tutti i singoli.
Siamo abituati a pensare che i personaggi dei romanzi debbano essere grandiosi e compiere imprese speciali, o che per avere una storia da raccontare bisogna essere colpiti da un’intuizione mirabolante. Questo libro invece dimostra che dal momento in cui entrano a far parte della Storia (con la maiuscola, sì) le nostre storie, piccole e normali, possono diventare universali. Nel leggere Sgaggio, infatti, non ho potuto fare a meno di pensare a un’altra opera: “Stoner”, di John Edward Williams. Non che i due romanzi si somiglino. Tranne che per una cosa: in entrambi la storia di una persona comune diventa altro e viene sollevata grazie al potere della letteratura. Ecco come è nata l’idea di questo percorso per AlleyBooks, che accosta tra loro libri che apparentemente sembrerebbero non avere molto in comune tra loro, ma che mostrano come una vita ordinaria può diventare racconto straordinario.
Protagonista de “L’eredità dei vivi” è Rosa, una donna con la licenza elementare, madre dell’autrice e di Francesco, disabile per un gravissimo errore medico. La donna combatte per acquisire (o proteggere) diritti per suo figlio, e facendo politica negli anni Settanta scopre il femminismo, il Partito Comunista, i Radicali, De Andrè. Il romanzo è la sua storia, ma in qualche modo è la storia di molte donne, che hanno conosciuto la maternità negli anni Settanta, hanno cresciuto i figli nell’abbondanza fasulla degli Ottanta e li hanno lasciati diventare adulti negli anni dell’annientamento, i Novanta. Donne che hanno visto sgretolarsi la fiducia nel diritto e nei diritti, spesso sfinite dall’inseguire un punto d’arrivo che non arrivava mai, paralizzate in una silenziosa esasperazione di desideri realizzati senza diventare realizzazione personale. Tutto questo raccontato con l’andamento di un moto ondoso, in cui tra giustapposizioni, flashback, flashforward, non si capisce mai quale sia il tempo della narrazione, e nella risacca di queste onde si cela tutta la meraviglia della scoperta della vita narrata.
Un’operazione simile, in cui il vissuto di una singola famiglia diventa l’espediente per raccontare un pezzo di storia d’Italia e in particolare di storia del Mezzogiorno, è quella condotta in porto da Mariolina Venezia in “Mille anni che sto qui” (Einaudi), Premio Campiello e Premio nazionale di narrativa Maria Teresa Di Lascia nel 2007. Il romanzo è ambientato in Basilicata, a Grottole, e segue le vicende dei Falcone per più di un secolo, dall’Unità d’Italia alla caduta del muro di Berlino. Un nucleo familiare che riassume in sé il nocciolo di ciò che si intende con “famiglia” nel nostro Paese, perlomeno fino a qualche decennio fa.
Padri, madri, figli, figlie, guerra ed emigrazione, fame e ricchezza, donne che stanno dietro le quinte nei ruoli principali mentre uomini agiscono sul palcoscenico nei ruoli secondari, si susseguono le generazioni passandosi silenziosamente il testimone, mentre disegnano un affresco storico in cui non è difficile riconoscersi e ritrovare le proprie radici. Soprattutto se si conosce quel Sud arcaico e a tratti psicomagico che vagamente ricorda il Sudamerica dei Cent’anni di solitudine. “Così senza accorgertene ti perdi nella storia, nella tua storia, in quella che hai messo insieme un po’ alla volta e che ti racconti ogni giorno per esistere. E solo quando torni indietro capisci che il tempo non è un cerchio ma una spirale, e che lo sforzo che fai per abbracciare il passato ti proietta di nuovo con forza verso il futuro”.
Rimandi continui tra il personale e l’universale, tra la saga familiare e l’affresco del Meridione, si ravvisano anche ne “Il cielo comincia dal basso” di Sonia Serazzi. Il Visconte di Virolea e la Baronessa di Babbumanno sono i soprannomi demenziali dei genitori di Rosa Sirace, la protagonista di questo piccolo gioiellino letterario edito da Rubettino nel 2018. La narratrice è Rosa stessa, che dopo la laurea in filosofia ottenuta a Perugia ritorna a vivere in un paesino non identificato della Calabria, con la famiglia.
Il tempo scorre in attesa di qualcosa, di un qualche avvenimento eclatante che a tratti sembra essere il famigerato posto di lavoro e a tratti un non so che di accettazione della consuetudine e della quotidianità decantate giorno dopo giorno nelle pagine di diario che compongono il romanzo. C’è un forte contrasto tra la semplicità degli eventi e la lingua sapientemente letteraria della narratrice, che si compiace della formazione recuperata altrove e portata poi in paese a nobilitare le tradizioni familiari e la quotidianità, con punte di ironia e pennellate liriche. La bellezza di questo contrasto fa del libro un inno al Sud, al di fuori dei confini degli stereotipi legati alla narrativa del Mezzogiorno, verso un’apertura più ampia e universale. “Noi fummo sempre poveri e mai tamarri: il tamarro è uno che la terra gli basta, il povero invece alza gli occhi in cerca d’azzurro”.
“Stoner” di John Edward Williams è sicuramente il capostipite dei romanzi che trasformano l’ordinarietà in straordinarietà. A fermarsi alla trama, potrebbe apparire di una noia mortale, tanto sembrerebbe essere insulsa la vita del protagonista. Un uomo mediocre, che non si allontana mai da casa se non per compiere gli studi universitari, a pochi chilometri dalla fattoria dove è cresciuto, e a cui sembra non succedere nulla. Infelicemente sposato, una figlia con cui non può legare, ha un solo amico e un solo nemico, ma con nessuno di loro approfondisce mai davvero i termini della relazione che li (s)lega. Nemmeno con l’amante riuscirà a costruire un rapporto soddisfacente.
Perché allora viene definito da più voci “il romanzo perfetto” (definizione con cui mi trovo perfettamente d’accordo)? Pubblicato nel 1965 ma tradotto in Italia da Fazi con Stefano Tummolini soltanto nel febbraio 2012, il mistero di questo libro è probabilmente nella sua qualità letteraria. L’effetto complessivo è quello di una superficie levigata e piatta, dove la scrittura è perfettamente limata per costruire l’ordinarietà della trama e dove anche i coup de théâtre creano solo delle piccole increspature. Non abbastanza per evitare quell’effetto di scivolamento, di ineluttabilità e di progressione che in fondo rendono rassicurante la vita. C’è un po’ di Stoner in ognuno di noi e questo libro è una celebrazione della nostra ordinaria universalità.
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