Da Il Mattino dell’8 novembre
«Guardare al presente come storia» mi è sembrato l’unico modo possibile per riesaminare analisi, giudizi, pregiudizi e visioni ideologiche sulla vicenda mafiosa in Italia che dura ininterrottamente da duecento anni.
Questo tentativo di riesame nasce innanzitutto da un disagio profondo che avverto come meridionale e come italiano (e che il tempo si è incaricato di rendere via via più acuto) verso il «racconto» dominante sulle mafie. Racconto pressoché immutato da due secoli: mafie come frutto della storia locale del Mezzogiorno, della sua arretratezza economica e sociale, della mentalità dei suoi abitanti, dell’esclusiva corresponsabilità delle sue classi dirigenti; in fondo le stesse analisi, gli stessi giudizi e pregiudizi che hanno accompagnato la questione meridionale dentro la storia nazionale.
A mio parere queste interpretazioni rappresentano un formidabile ostacolo alla comprensione delle mafie e, nella migliore delle ipotesi, un colossale abbaglio. Interpretazioni che non sanno dirci niente di fronte all’incalzare dei fatti che ci squadernano mafie a loro agio in un Centro-Nord dell’Italia ricco e dinamico, culturalmente avanzato e civilmente progredito, e dunque non più elementi esclusivi di un Mezzogiorno che si voleva e si vuole strutturalmente e ancestralmente mafioso. E allora?
In Italia si fa fatica a comprendere che quando fenomeni criminali durano tanto a lungo, quando essi rompono facilmente l’argine entro cui si pensava fossero storicamente e socialmente confinati, e quando tutti i tentativi di reprimerli o di ridimensionarli si sono dimostrati inefficaci o non definitivamente risolutivi, ciò vuol dire che le mafie non sono riducibili solo a «storia criminale», ma fanno parte a pieno titolo della storia italiana.
Perché il Sud non è altra cosa dall’Italia, non è un mondo isolato, ha e ha avuto relazioni stabili con la storia patria, che ha influenzato e da cui è stato influenzato.
Queste relazioni sono state diverse nel tempo, si sono allentate o rafforzate a seconda del contesto, delle circostanze, dei rapporti di forza, del grado di consenso sociale riscosso, ma sicuramente sono interne alla storia dei poteri in Italia.
Non si può, dunque, separare la storia d’Italia dalla storia delle mafie, prescindendo dal peso e dal molo che vi hanno rivestito i criminali mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti e dalle loro relazioni con quelle classi dirigenti che ufficialmente quella storia la scrivevano.
Perché la storia delle mafie è innanzitutto e soprattutto storia di relazioni con le mafie.
… Se le mafie sono nate a Palermo, a Napoli o a Reggio Calabria, e non a Londra, a Parigi o a Milano, qualche motivo ci sarà. Ma se le mafie sono un prodotto di una parte della Sicilia, di una parte della Campania, di una parte della Calabria, esse debbono il loro successo alle modalità con cui questi territor isono stati integrati nello Stato-nazione e alla reciproca influenza tra economia locale e nazionale, tra classi dirigenti locali e nazionali.
È in dubbio che se i referenti politici delle mafie nelle regioni del Sud non fossero stati indispensabili per gli equilibri della politica italiana, fin da dopo il 1861 le mafie sarebbero state spazzate via facilmente. È il molo negli equilibri della politica nazionale dei referenti politici delle mafie che le ha rese invincibili per un così lungo tratto storico. Di ciò parlava già Leopoldo Franchetti nel 1876, il primo inascoltato a dimostrare le collusioni esistenti tra classi dirigentinazionali e mafia.
Eppure i libri dedicati alla storia italiana non fanno cenno a tutto ciò, o trattano alcuni degli episodi citati come fenomeni occasionali, in ogni caso non in grado di condizionare il corso degli avvenimenti o delle scelte che hanno portato a ciò che è oggi l’Italia, o non decisive nel determinare i caratteri della nazione. Invece le mafie sono state e sono ancora oggi protagoniste della storia nazionale, non fanno parte solo della storia locale o regionale. Ma questo evidente e accertato molo non entra nelle storie ufficiali: lo si sa, ma non lo si scrive; è certo ma non viene registrato, se non nella parte criminale di quella stona, che viene però trattata come storia a sé.
… Insomma, questa sottovalutazione è stata dovuta a un problema di fonti o di atteggiamento? Di metodo storico o di cultura? Il problema non è di fonti, né di scarsi riscontri storici; il problema è di cultura storiografica, di quella concezione crociana della storia, che ha influenzata tutta la storiografia italiana, anche quella di formazione marxista. Il convincimento cioè che le mafie non sono che residui feudali e di arretratezza che saranno «naturalmente» superati dall’incedere della grande storia delle idee e del progresso dell’umanità. Occuparsene sarebbe dare importanza a qualcosa che inevitabilmente è destinato a scomparire, e dunque perdere tempo. In questo quadro come si può minimamente dare spazio al molo della camorra e della mafia nell’Unità d’Italia?
Se volessimo capire perché le mafie italiane hanno avuto una così lunga storia, se volessimo capire perché hanno condizionato e condizionano la vita della nazione, non dovremmo mai sfogliare uno dei tanti libri sulla storia italiana. Gli storici italiani sono attenti al ruolo degli uomini politici, al molo dei partiti, delle organizzazioni sociali portatrici di interessi, al molo delle strutture di potere reale. La loro è sempre storia politica, ed essi non riescono ad accettare che anche le mafie sono strutture di potere, che hanno esercitato una grande influenza, diretta e indiretta, sui partiti e sul sistema politico. Essi non accettano che degli assassini abbiano potuto condizionare la vita della nazione stando dietro le quinte e non sulla scena della storia. Gli storici non ci hanno aiutato a costruire una chiave di lettura condivisa della storia italiana e del molo svolto in essa dalla violenza privata. Così un fenomeno criminale di grande influenza politica, come nessun altro nella storia delle democrazie moderne dell’Occidente, è stato ridotto a fattore antropologico, di cultura, di mentalità. Se il contesto socio-politico sotto i Borbone le ha fatte nascere, esse si sono consolidate e sono assurte a protagoniste della storia nazionale dopo l’Unità. Era nelle possibilità del nuovo Stato di renderle un residuo borbonico e feudale, e invece le ha fatte diventare soggetti influenti sulla storia nazionale.
di Isaia Sales
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