Era nell’aria. Prima o poi la revisione storiografica sul pensiero di Croce per la parte relativa agli ultimi decenni della sua vita sarebbe dovuta arrivare. Erano troppi ormai i materiali diretti o di riflessione che si accumulavano sul tavolo dello studioso per continuare a pensare che l’immagine di un Croce pienamente inserito nell’ideologia repubblicana potesse continuare ad aver corso. Il libro Benedetto Croce. Gli anni dello scontento 1943-1948 che Eugenio Di Rienzo pubblica ora, nella nuova collana “Dritto/Rovescio” da lui diretta (Rubbettino, pagine 178, € 14,00) colma perciò un vuoto.
In esso, l’autore, che è ordinario di storia moderna alla Sapienza di Roma, con dovizia documentale e organicità di ricostruzione, fa venire fuori due elementi importanti non dovutamente sottolineati dalla storiografia precedente. Il primo punto da considerare è che il filosofo napoletano fu, in qualche modo, il centro di riferimento politico e non solo morale degli Alleati durante il periodo del cosiddetto “Regno del Sud”.
Nella Villa del Tritone di Sorrento, ove si era rifugiato, egli costruì una sorta di “diplomazia personale” che si affiancava a quella, piuttosto spuntata per ovvie ragioni, del capo del governo Badoglio e del Re che operavano a Brindisi. Il disegno di Croce era quello di fare abdicare lo screditato Vittorio Emanuele III in favore del figlio Umberto, rimandando ad un secondo tempo la scelta relativa a se conservare o meno la monarchia, a cui pure era legato di cuore. Contestualmente, egli si proponeva di ricreare le condizioni, non solo politiche ma culturali, per la rinascita di un regime liberale (anche se mai egli credette, come gli si è imputato, di voler ridare vita semplicemente allo stato di cose precedente l’avvento del fascismo). Più che la forma, a Croce interessava la ricostituzione di uno Stato. Egli voleva ridare al popolo italiano quella dignità seriamente compromessa dalle vicende della fuga del re e della “morte della Patria”. Nel tentativo di ricostituire un minimo di classe dirigente, Croce si trovò però a fare i conti con forze politico-culturali che egli non riteneva affatto adeguate a garantire all’Italia un futuro di libertà e democrazia.
Da subito i suoi strali si rivolgono contro i tanti suoi amici e sodali che approdavano in quel torno di tempo sulle spiagge del Partito d’Azione: da De Ruggiero a Omodeo, per intenderci. Nei confronti di quest’ultimo soprattutto, come ci fa notare Di Rienzo, egli si mostra addolorato e critico risoluto, anche perché, contrariamente a quanto promessogli, lo storico suo allievo nulla aveva fatto per contrastare dall’interno il massimalismo e il radicalismo degli azionisti. I quali, secondo Croce, sotto le parvenze di un liberalismo di facciata, si adoperavano a fare da sponda ai comunisti nella costruzione di un’Italia socialista.
Croce, nel rapido giro di qualche mese, si sarebbe trovato spiazzato e isolato rispetto al blocco di potere, soprattutto culturale, che si andava creando nel nostro Paese. Attento a questo succedeva nel più vasto mondo occidentale, egli comprese che la nuova partita del mondo libero si sarebbe giocata contro il comunismo. L’ideologia italiana, rigorosamente antifascista, avrebbe ammesso invece il non comunismo ma non l’anticomunismo. Risultando, proprio per questo, non compiutamente liberale.
“Il postumo arruolamento di Croce a precursore di un Tiers parti, nel cui seno le élite autonominatesi progressiste lavoravano attivamente per arrivare al loro personale “compromesso storico” con gli apparatcik di Botteghe Oscure, fu naturalmente – scrive Di Rienzo – un’operazione opportunistica di pura immagine che riduceva il lascito del filosofo a carta straccia”. Non dismettendo l’aplomb dello studioso, l’autore di questo libro fa il nome di Eugenio Scalfari. Quello che va aggiunto qui è che quella vecchia storia, di una cultura italiana asservita alla sinistra, non è ancora finita.
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