Da Il Giornale del 9 aprile
A volte le biografie degli uomini politici sono più rivelatrici del loro pensiero. È questo il caso del maggiore esponente del cattolicesimo politico italiano del ‘900, Luigi Sturzo (1871-1959), passato nel corso del tempo dal cattolicesimo democratico al cattolicesimo liberale. Fondatore nel 1919 del Partito popolare, fiero oppositore del fascismo, il sacerdote di Caltagirone fu costretto nel 1924 ad emigrare prima in Inghilterra, poi in Francia, infine negli Stati Uniti per ritornare in Italia solo nel 1946. Il ritorno in patria registra questo suo significativo passaggio dalla democrazia al liberalismo perché Sturzo, avendo fatta propria la lezione americana del valore primario della libertà (scriverà nel 1948: «la libertà è come l’aria: si vive nell’aria; se l’aria è viziata, si soffre; se l’aria è insufficiente, si soffoca; se l’aria manca si muore»), denuncia la debole rottura tra fascismo e antifascismo rispetto al problema fondamentale del potere politico. Certamente in Italia, abbattuta la dittatura, erano ritornate le libertà democratiche; non era invece stato abbattuto lo statalismo che, se con il fascismo aveva assunto il volto totalitario, assumeva ora quello della partitocrazia e dello sperpero del denaro pubblico. Di qui l’inevitabile corruzione della vita politica che avrebbe portato la sua classe dirigente – ma non solo – non a servire lo Stato, ma a servirsene (non dimentichiamoci che è stato Luigi Sturzo, fin dal 1946, e non Berlinguer a sollevare per primo il problema della «questione morale»). Opportuna, dunque, da parte di Rubbettino, la ristampa di alcuni scritti sturziani su questi temi apparsi tra 1946 e il 1959: Luigi Sturzo, Servire non servirsi. La prima regola del buon politico, prefazione di Giovanni Palladino, postfazione di Marco Vitale (Rubbettino, pagg. 82, euro 9).
L’ammonimento profetico di Sturzo ai dirigenti democristiani era quello di non abbandonare la via maestra da lui aperta sin dalla fondazione del Partito popolare, con il suo appello ai Liberi e forti del 18 gennaio 1919: «ad uno Stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti delle sue attività, che rispetti nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private».
Dopo la terrificante esperienza dei totalitarismi che avevano elevato oltre ogni misura la potenza statale, come era ancora possibile confidare nello Stato, oltre passando i compiti propri assegnatigli dalla concezione liberale? Lo Stato, che «per definizione è inabile a gestire una semplice bottega di ciabattino» (così scriveva l’ll agosto 1951), non doveva essere potenziato come volevano le correnti di sinistra della DC ma depotenziato. Diversamente il Paese sarebbe diventato preda dell’immoralità: strapotere delle burocrazie; applicazione di sistemi fiscali vessatori; conferimento di impieghi statali a persone incompetenti; concorrenza costosa e sleale dello Stato imprenditore; monopolio dei sindacati sulla classe lavoratrice. Insomma, sistematica umiliazione delle libertà pubbliche e personali.
di Giampietro Berti
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