Da La Gazzetta del Mezzogiorno 23 Luglio
Tra le tante conseguenze della più incisiva e vasta crisi economica – che stiamo ancora vivendo – dell’era moderna ricorderemo il cambiamento forse irreversibile dell’atteggiamento collettivo nei confronti dei temi economici. La materia era, fino a pochissimi anni fa, sempre conseguenziale e mai primaria. Ci si interessava essenzialmente di politica e ideologie, ci si appassionava alle vicende di partito e alle relative tristezze quando le cronache politiche sfociavano in quelle giudiziarie. Al bar si poteva partecipare con la stessa passione alla disputa sul rigore nell’ultimo derby e alla discussione sul ruolo del proprio leader politico di riferimento. Poi è arrivata l’era dello spread e niente sarà più uguale a prima. La polverizzazione delle ideologie ha affrancato l’economia che è passata dal ruolo di strumento operativo per la realizzazione di
un disegno condiviso a motore autonomo e origine di dinamiche avulse da logiche dirigistiche. Naturalmente era illusoria la prima certezza così come è falsata la seconda visione. L’economia non si può pretendere di domarla e neppure si può immaginare che vada lasciata veleggiare senza timone. Ma intanto è diventata argomento «popolare», che suscita interesse comune, è uscita dai seminari scientifici ed è entrata nella quotidianità. A voler ascoltare vecchie campane, c’è in questo un disegno ben preciso: è bene che i cittadini europei guardino in faccia la realtà, perché ora non c’è più il Partito (qualunque esso sia stato) a fare da ammortizzatore, ora c’è l’austera tecnicità dei bilanci con cui fare i conti e tutto passa in secondo piano. Fallita o superata la politica, ora comandano i tecnocrati europei e i nuovi punti di riferimento sono banchieri, gestori di fondi di investimento, intermediatori finanziari e c’è poco da mediare: i conti devono tornare e basta. Magari non è così, ma un fenomeno ci appare sempre più mostruoso quanto più è sconosciuto, l’ignoto fa paura.
Ecco perché è sorprendente leggere le centoventi pagine di Nuova Europa o neonazionalisrno, l’ultimo libro di Antonio Patuelli. Al di là dei meriti puramente «narrativi» (la scorrevolezza e il linguaggio) che pure non sono poca cosa, Patuelli tiene insieme senza
paura di andare fuori tema l’Unità d’Italia e il fiscal compact, De Gasperi e l’euro. Il suo non è un compiaciuto saltabeccare, tutt’altro: è un riuscito tentativo di legare insieme fili solo apparentemente lontani, ma che una volta tessuti formano una trama capace di offrire finalmente una lettura complessiva e argomentata dei fatti che viviamo oggi. Con il vantaggio della sintesi e della chiarezza (spesso altrove ingiustamente sacrificati a favore di prolissi trattati per i quali non si riesce mai a capire dove finisce l’intento divulgatorio e dove comincia lo sterile narcisismo letterario). La meraviglia, noi, nel caso di Patuelli, è che a dipanare tesi politico-sociali prima ancora che economiche è proprio lui, di mestiere banchiere in qualità di presidente della Cassa di Risparmio di Ravenna. Di più. Patuelli è il rappresentante dei banchieri visto che da due
anni e mezzo è alla guida dell’Associazione Bancaria Italiana. Quindi ci si aspetterebbe un atteggiamento tutto diverso: la realtà spiegata con grafici e
tabelle per ristabilire il primato del tasso di interesse e del pil sull’interesse della gente. E invece no. Patuelli prova a spiegare questi tempi incerti con la storia del nostro Paese, travasando l’Italia in Europa e raccontando che cosa di buono l’Europa unita ha fatto, con un parallelo rispetto all’Italia unita, e che cosa invece deve ancora fare.
La Storia si interseca alle storie dei nostri giorni in un crescendo causa-effetto che offre allo stesso tempo interpretazione della realtà e aneddotica, rievocazione politica ed elaborazione economica. Tale elasticità e opportuna disinvoltura interdisciplinare si spiega anche con la formazione e la storia
personale di Antonio Patuelli, con un passato di attivo uomo politico liberale e dunque abituato a maneggiare il tecnicismo come strumento. E torniamo al punto di partenza, dunque, la politica – quella vera, la cosa pubblica al servizio del pubblico interesse – che non è più capace di dare risposte coerenti alle esigenze dei cittadini, rischia di farsi dominare da dinamiche economiche che non è in grado di controllare. Ed ecco allora il rischio che si fa urgenza, sotto i nostri occhi: le forze estremiste, i nazionalismi, i populismi che tentano di prendere il sopravvento e occupare gli spazi di crisi, facendoci mettere in discussione il concetto stesso di Europa, la natura stessa della libertà economica fino a far tracimare queste scorie in tutti gli àmbiti della nostra società multiculturale e multietnica, compresa quella religione che, se manipolata con spregiudicata astuzia, diventa uno strumento di terrore. A tutto questo bisogna dare risposte, e in fretta, sembra
ricordare Patuelli, prima che il sogno europeo si infranga in una brutta copia dei nazionalismi liberticidi azzerando decenni di progresso sociale
ed economico. E le risposte, per quanto possa suonare strano in questi tempi, devono essere politiche.
Di Gianfranco Summo
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