da Italia Oggi del 13 Dicembre
Matteo Renzi, considerato l’anima berlusconiana e piaciona della sinistra, ha realizzato qualcosa che nemmeno ai leader più tosti e più adulti del riformismo di sinistra era mai riuscito: la definitiva rottamazione dell’apparato postcomunista, che negli ultimi settant’anni ha fatto il bello e il cattivo tempo nella sinistra italiana. Non ce l’ha fatta Bettino Craxi, impaninato da Tangentopoli un attimo prima di passare all’incasso dopo la caduta del Muro di Berlino, e non ce l’ha fatta Papi in vent’anni di governo e d’opposizione. C’è riuscito Renzi, con «la Leopolda» (che sembra il titolo d’uno di quei filmacci porno soft, a proposito di postcomunisti e di rottamazione, che piacevano a Walter Veltroni).
«Il progetto della cosiddetta Riunione delle Chiese Cristiane, della diplomazia aperta, di una tassa unica, di una pubblica amministrazione i cui funzionari “non abbiano altri requisiti oltre alle proprie capacità personali”, d’una società pianificata in maniera autocosciente, il Rapporto Beveridge, il Federalismo, il Nazionalismo, il Voto alle donne, la distruzione dell’impero austro-ungarico, l’Education Act del 1944, lo Stato Mondiale (di H.G. Wells o di chiunque altro) e il ripristino del Gaelico come lingua ufficiale dell’Eire, sono tutti progenie del Razionalismo. La strana generazione del razionalismo in politica avviene attraverso il potere sovrano e il romanticismo» (Michael Oakeshott, “Razionalismo in politica”, IBL 2013).
Liquidata la tradizione comunista e post, rottamati (e anche un po’ umiliati) Massimo D’Alema, gli ex dc di sinistra, la «base» eternamente in rivolta e sempre un po’ grillita e forconista, Romano Prodi eccetera, a Matteo Renzi non resta che cambiare il mondo. Cambiare il mondo, per i politici italiani, da Giuseppe Garibaldi a Beppe Grillo, è sempre stato il programma minimo.
Quando si vuole cambiare il mondo, come il sindaco di Firenze e tutti i leader italiani si ripromettono di fare, bisogna cominciare cambiando per cominciare il governo, anche a costo d’offendere Giorgio Napolitano, che non ne vuol sapere. Ma dopo la sentenza della Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittima (comunque la si rigiri) la legislatura presente, al pari di quelle che l’hanno preceduta negli ultimi otto anni, non basta cambiare il governo. Bisogna cambiare anche la legge elettorale e rinnovare il parlamento. Per cambiare la legge elettorale, piaccia o non piaccia, è indispensabile accordarsi con l’opposizione, cioè col Comico e col Caimano. Ma aprire un tavolo di trattative con l’opposizione (pensate a un tavolo di trattative con Beppe Grillo che strepita e smadonna, magari in streaming) significa mettere a dura prova la pazienza degli ex e post comunisti, tagliati fuori dal tavolo grande. E Repubblica, che negli ultimi mesi s’è schierata col sindaco contro i vecchi arnesi, gli consentirà di trattare col Pregiudicato?
«Talvolta Davos attirava uno stuolo di divi del cinema e rock star, ansiosi di esaltare le proprie credenziali di mologisti d’assalto, salvatori del mondo, crociati delle battaglie contro la fame. Nel 2005 Sharon Stone prese la parola per chiedere contributi a un fondo che dotasse i tanzaniani di zanzariere contro la malaria: in pochi minuti raccolse offerte per oltre un milione di dollari. Nel giro d’un paio d’ore, un reporter poteva intervistare Angelina Jolie e Richard Gere, vedere politici come Bill Clinton e Gordon Brown e miliardari come Bill Gates mescolarsi ai moderni arbitri della giustizia mondiale: Bono e Bob Geldof» (Alan S. Cowell, “Londongrad. L’ultima spia”, Piemme 2013).
In politica, come nella vita, il problema è sempre stabilire chi comanda. Renzi non ha l’aria dell’animale alfa. Ma auguri.
«Huey Long, che sembrò sul punto d’assestare un colpo all’ambiguità quando disse che il “fascismo” avrebbe potuto instaurarsi negli Stati Uniti d’America ma che avrebbe dovuto essere chiamato con altro nome, svelò la modernità del suo vocabolario politico quando il nome che suggerì fu «democrazia». E’ una situazione ironica. Ciascuno degli dèi più importanti dell’antica Grecia aveva molti nomi e il numero dei suoi nomi diceva il numero e la diversità dei poteri di cui il dio godeva; questi dèi, infatti, erano caratteri plurali. Al contrario, le nostre divinità politiche hanno ciascuna un solo nome, ma dietro di esso si nasconde un carattere non meno plurale e spesso molto più vario» (Michael Oakeshott, “La politica moderna tra misticismo e fede”, Rubbettino 2013).
di Diego Gabutti
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