Da L’Espresso del 26 giugno
I percorsi della ricerca storica e della psicoanalisi si sono intersecati assai di rado. I loro campi sono apparsi ai più troppo distinti perché si instaurasse una relazione fruttuosa. Nell’opinione prevalente, anzi, l’origine di questa distanza va fatta risalire allo stesso padre della psicoanalisi, in quanto le teorie di Freud sarebbero di fatto indifferenti alla dimensione della storia. Questo punto di vista è messo radicalmente in discussione da uno storico dell’età moderna, Aurelio Musi, in un saggio breve quanto denso che si propone di mostrare il nucleo di storicità esistente nei fondamenti dell’opera freudiana (“Freud e la storia”, Rubbettino, pp. 110, € 14,00). Musi contesta la desueta separazione fra una conoscenza storica attaccata al principio della spiegazione razionale del passato e una psicoanalisi ancorata a una rappresentazione frammentata e parziale del vissuto umano. Al contrario, rintraccia entro gli scritti di Freud una solida base di storicità che getta le fondamenta di un dialogo effettivo con gli studiosi volti alla ricostruzione diacronica, specie quando entri in gioco il ruolo esercitato dalle personalità, individuali e collettive (una questione che Musi esemplifica attraverso un’originale rivisitazione della figura di Masaniello). Del resto, sulla scia di Peter Gay, si può arrivare alla conclusione che storia e psicoanalisi siano entrambe «scienze del sospetto», Secondo Musi, esse sono soprattutto «scienze della vita», che hanno da guadagnare dal confronto reciproco, nel senso di un potenziamento della capacità di comprendere in maniera profonda l’esperienza umana.
di Giuseppe Berta
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