Eventi estremi nel prossimo futuro
a cura di Emanuela Guidoboni, Francesco Mulargia, Vito Teti
Da L’Espresso del 10 giugno
Il futuro in Italia è disseminato di insidie perché la lucreziana “Mater Tellus” non ha risparmiato alla penisola e alle isole (massime la Sicilia) terremoti, alluvioni, impazzimento di fiumi. Sismologi, fisici, storici, antropologi, giuristi e urbanisti nei decenni hanno rivoltato come un guanto l’argomento. Il Regno d’Italia e la Repubblica non si sono distinti per capacità di prevenzione e hanno affrontano post-factum gli effetti dei disastri che a lungo sono stati considerati “naturali”. E dire che di ammonimenti è disseminata la storiografia italiana: a partire da Niccolò Machiavelli a Carlo Cattaneo, per giungere nel secolo scorso a protagonisti della politica meridionalistica da Giustino Fortunato a Emilio Sereni, a Manlio Rossi-Doria. La sola cronologia è spaventosa: alluvione del Polesine del 1951, disastri della Calabria e di Salerno (1953 e ’54), del Vajont (1963), della frana di Agrigento (1966), del Piemonte (1968), di Genova (1970), della Calabria (ancora 1973) e si può continuare in questo luttuoso elenco fino a ieri l’altro. Ho evocato disastri imprevedibili come i sismi e prevedibili come l’esondazione dei fiumi o il disfacimento delle montagne, non tale fu il crollo del Vajont.
Il libro “prevedibile/imprevedibile. Eventi estremi nel prossimo Futuro”, edito da Rubbettino, a cura di Emanuela Guidoboni con Francesco Mulargia e Vito Teti, affronta con ricchezza pluridisciplinare di competenze un tema chiave nella storia del Paese. Il volume guarda al passato, al presente ed è volto a indicare le linee auspicabili per una politica di prevenzione nel futuro. La prevenzione e la politica per la difesa del territorio è in Italia miserevole e sarebbe da stolti continuare a mettere la testa nella sabbia. La Guidoboni ricorda che negli ultimi 150 anni la periodicità dei disastri sismici è stata di quattro o cinque anni, e le frane si contano in oltre 2.800, con un costo medio annuo che al valore attuale ammonta a oltre 5 miliardi e mezzo di euro. L’area di rischio interessa indifferentemente tutto il paese, con scarse differenze tra le diverse regioni. Questi eventi sono stati affrontati con diverse capacità politiche e tecniche: un caso raro, esemplarmente positivo, è quello del terremoto del Friuli che 40 anni fa provocò circa mille morti. I friulani si rimboccarono le maniche e scavarono tra le macerie con la forza, il coraggio e la dignità dei montanari e avviarono subito la ricostruzione. L’area del disastro era vastissima ma fu adottata una politica che demandò i poteri e le risorse ai “comitati dei terremotati” che facevano capo alle istituzioni dello Stato. È quello che si indica come il “Modello Friuli”.
Nel terremoto del 1980 che investì Irpinia e Basilicata i morti furono oltre tremila: sul pessimo “Modello Irpinia” si sono scritti decine di libri, ci sono state centinaia di interpellanze parlamentari e di leggi, e non si contano i processi per le responsabilità del disfacimento di interi paesi e per la politica adottata per ricostruirli. Nei primi anni Ottanta Eddy Salzano calcolò che fossero vigenti, fra leggi e decreti, 535 provvedimenti di livello statale e circa 1500 leggi regionali aventi una qualche rilevanza ambientale e infine che in parlamento giacessero 146 proposte di legge. Nell’ordinamento italiano le diverse componenti del territorio sono disciplinate da provvedimenti e politiche che riguardano separatamente le diverse componenti dell’ecosistema. Esiste un cancro giuridico e istituzionale determinato dalla sovrapproduzione di leggi statali e regionali, demandati a un’infinità di “competenze”. Si potrebbe citare la Sicilia, la Calabria, la Liguria o altre regioni in cui le cose non sono andate meglio. La tragedia è che tutte le leggi e gli studi non hanno messo a punto un progetto per la prevenzione del territorio nazionale. Se la terra trema o i fiumi straripano il meglio che si può fare è affidarsi al santo patrono.
La pianificazione quotidiana per la messa in sicurezza del territorio nazionale richiede decenni di impegno e di spesa, ma grande sarebbe il profitto per l’occupazione, mentre i soldi che si bruciano per riparare ai danni sono solo uno spreco, lordo di sangue innocente. L’Aquila docet! Se volessimo limitare l’analisi, scrisse Carlo Cattaneo, all’angusta area compresa tra Milano, Lodi e Pavia, valutando ad una ad una le opere approntate dall’uomo, dovremmo concludere che quella terra “per nove decimi non è opera della natura; è un’opera delle nostre mani; è una patria artificiale”. Questa “patria artificiale” si disfa anno dopo anno. Senza quella distinzione storica e geografica che separava la Lombardia teresiana dallo “sfasciume” del Regno in dissoluzione dei Borbone. La pianificazione del territorio e la gestione di emergenza restano ancora un auspicio, malgrado “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino” (art. 52 della Costituzione): i padri costituenti non si riferivano solo ai confini del Paese da aggressioni esterne ma alla difesa dell’insieme del contesto che si chiama Italia. Difatti questi principi hanno la loro esplicita enunciazione nell’art. 9 della Carta: la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”. Ciò nonostante bisogna considerare pannicelli caldi i provvedimenti per i disastri che continuano a devastare l’Italia e il governo Renzi ne dovrebbe avere coscienza e trarne le conseguenze.
di Cesare De Seta
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