Uno spettro si aggira per la Terra (e, soprattutto, per l’America). Quello della collisione tra il nostro pianeta – l'”Arancia blu” (per usare la definizione di Enzo Tiezzi, uno dei padri dell’ecologismo italiano) – e una cometa abbastanza grande da decretare l’estinzione del genere umano se non si riesce a modificarne l’orbita. Una scoperta casuale intorno a cui ruota la trama del film Don’t Look Up di Adam McKay.
Una commedia amara pienissima, uno zibaldone di idee, dialoghi e trovate, con un supercast di attrici e attori. Davvero “tanta roba” – fors’anche troppa (ed è questo il solo appunto che si può muovere a una pellicola strepitosa). Ma il filo rosso di fondo è l’emergenza ambientale. E, dunque – anche perché il registro è quello della commedia “neroverde” brillantissima – , non si tratta affatto di un film riconducibile al filone di lunga data del cinema catastrofista, ma di una modalità narrativa per trattare l’emergenza ambientale sul grande schermo (e sul piccolo, visto che si tratta di un prodotto made in Netflix, in streaming dalla vigilia di Natale).
Perché, a conferma di come Hollywood abbia interiorizzato perfettamente la questione ecologica, il film ci mostra come siamo prossimi a schiantarci anche nella realtà. E lo racconta in un mood “Gaia apocalisse”, che ricorda per certi versi l’atmosfera e l’accumulo dei materiali provenienti dalla vita pubblica e dalla cronaca contemporanea di quel libro epocale che è stato Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus (uscito in versione definitiva nel 1922). Dove la stampa e i giornali costituivano, al tempo stesso, un termometro e un megafono dell’isterismo e delle nevrosi dei contemporanei che stavano precipitando nell’apocalisse della Prima guerra mondiale. Così Don’t Look Up contiene una critica senza sconti del sistema dei media e dell’infotainment statunitensi. Insieme alla messa alla berlina dei tic e dei vizi di una società (in)civile narcisista, isterica e in preda agli psicofarmaci (usati come caramelle per le gola) e di un neoliberismo cinico e predatorio, l’una e l’altro senza alcuna coscienza del disastro imminente.
Il film ne ha per tutti, e non si salva nessuno, con una maggiore indulgenza per gli scienziati protagonisti e le persone che li aiutano nella loro battaglia per richiamare le autorità al senso di responsabilità di fronte alla catastrofe prossima ventura. Ma che sono le prime a rivelarsi irresponsabili, come la presidentessa Usa interpretata da Meryl Streep – incrocio tra un Trump in gonnella e una Sarah Palin vittoriosa alle elezioni – ossessionata dai sondaggi e preoccupata solamente di nascondere gli scandali sessuali in cui lei e l’inner circle risultano invischiati. Don’t Look Up mette nel mirino anche gli eccessi del politicamente corretto, il senso di onnipotenza del neocapitalismo high tech (tutto app, viaggi spaziali e criogenesi per i ricconi). E pure la fine dell’opinione pubblica tristemente convertita in pura “emozione pubblica”, e divorata dal “malessere democratico” (al riguardo, si può leggere con profitto il libro Demopatia del politologo Luigi Di Gregorio, pubblicato da Rubbettino).
Un film liberal e democratico – come lo sono i suoi interpreti in quanto a orientamento politico-elettorale – che prende di petto in maniera divertente e acuta tutti gli “spettri contemporanei” della società dello spettacolo, dell’immagine e dell’iperconsumismo e quelli della polarizzazione delle opinioni e della credulità irrazionale (e ce n’è, sotto altre spoglie, anche per i no-vax). Ma che, soprattutto, mette al centro dell’agenda di un mondo disumano, troppo disumano (anamorfosi del nostro Occidente alla deriva) il fallimento della transizione ecologica e gli effetti del tradursi in realtà – seppure sotto la forma della finzione – del rischio ambientale. Fino alle estreme conseguenze, quelle senza più ritorno.
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