Com’è difficile fare i conti con gli Anni di piombo (La Stampa)

di FABIO MARTINI, del 11 Luglio 2013

Nell’ultimo numero della Rivista di Politica (in uscita) una riflessione a più voci sul terrorismo
Da La Stampa del 11 luglio 2013

Erano i giorni dell’incomprensione assoluta, le autorità brasiliane avevano fatto capire senza infingimenti che per loro Cesare Battisti andava considerato come un combattente per la libertà, non come un terrorista in fuga, e proprio in quella circostanza, era il gennaio 2011, il Capo dello Stato Giorgio Napolitano pronunciò sul fenomeno del terrorismo parole destinate a far riflettere: «Non siamo riusciti a far capire cosa è stato per noi». Partendo da quella valutazione, ha preso le mosse l’idea di una ricerca che il suo promotore, il professor Alessandro Campi, spiega così: «Si può spiegare ad altri ciò che probabilmente nemmeno noi italiani siamo riusciti a spiegare a noi stessi? Manca ancora una storiografia consolidata». Ecco perché l’Istituto di Politica ha promosso due giornate di studi a Montecitorio con un approccio originale: scoprire come è stata raccontata per 40 anni la stagione del terrorismo dal cinema, dalla letteratura, dalla memorialistica, dalla stampa quotidiana. Le relazioni di quel convegno – saggi apripista nei diversi campi – sono ora pubblicati nell’ultimo numero della Rivista di politica, Rubbettino editore. Saggi ricchi di spunti inediti e interessanti. Nell’analisi sui giornali quotidiani, Luca Falciola fissa una lunga stagione iniziale, contemporanea al fenomeno terroristico, durante la quale si è oscillati tra un giornalismo «daltonico» che vedeva un solo colore, come scrisse Gaspare’ Barbiellini Amidei e una sostanziale incomprensione, come ha riconosciuto Giorgio Bocca, che scrisse: «In quegli anni noi cronisti non capimmo niente della sinistra armata». Anni nei quali «eccessiva attenzione è stata dedicata alle voci dei protagonisti delle lotte» mentre una «marcata sotto rappresentazione» hanno finito per averla le voci delle vittime. Nell’ultimo decennio, la svolta: i giornali hanno scelto di «raccontare quel periodo in modo più meditato e obiettivo», svolgendo talora inchieste che hanno aperto strade nuove. Più partigiana, ma è logico, la memorialistica degli ex terroristi di sinistra e di destra. Nella ricca produzione, esaminata da Angelo Ventrone, emergono costanti destinate a lasciare il segno: nelle ricostruzioni postume «la violenza viene spesso presentata come difensiva e reattiva verso uno Stato che, all’epoca, era giudicato oppressore». Per non parlare della «disumanizzazione della vittima», vista come simbolo. Con un paradosso ulteriore: «la spersonalizzazione della vittima ha portato alla spersonalizzazione del carnefice». Neppure la letteratura, nella analisi di Demetrio Paolin, «sebbene intellettualmente più libera della saggistica, è ancora riuscita a restituirci una ricostruzione affidabile». Di più: in diversi romanzi si annidano «malintesi, reticenze, colpevoli vuoti di memoria», in definitiva «non è stato ancora scritto il grande romanzo sul terrorismo italiano». Anche Christian Uva, esaminando la produzione cinematografica, constata che manca un «film-modello, come è stato Anni dipiombo per la Germania, anche se «sin dai primi Anni 70», il cinema italiano ha offerto «una rappresentazione aderente alla realtà storica». Con film all’epoca sottovalutati dalla critica e inquadrati nel filone «poliziottesco». A parlare di trame eversive, già nel 1972, era stato il film capostitite, La polizia ringrazia di Steno, che avvia un genere nel quale alcuni titoli parlano chiaro. Come, per esempio, La polizia accusa: il servizio segreto uccide. Agnese Moro, studiando gli scritti delle vittime e dei loro famigliari, nota come «dopo un lungo e per molti versi comprensibile silenzio», il punto di vista di chi ha subìto, ha aiutato comunque «una lettura più completa» su diversi aspetti: «le vittime erano persone e non simboli», «il dolore per la stigmatizzazione dei morti», inseguiti da «sospetti e veleni»; la scoperta postuma del «consenso e della complicità» per il terrorismo da parte di intellettuali poi diventati celeberrimi. In conclusione, sostiene Campi, nel complesso restano due tendenze opposte «a rimuovere, oppure ad utilizzare in chiave strumentale», due tendenze che «non si superano però con l’invito ad elaborare una “memoria condivisa”, un affiato pedagogico che si scontra con la banale evidenza che la memoria è soggettiva e perciò selettiva» e dunque «resta ancora aperta la necessità di confrontarsi con questa storia con gli strumenti propri: quelli della storiografia».

DI FABIO MARTINI

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