Da Il Giornale di Brescia del 16 novembre
La Prima Guerra Mondiale. Euforie patriottarde, fiori nei fucili, attrattive d’avventura, illusive rigenerazioni dello spirito. E poi, vite di trincea, tra fango e pioggia, con spasmo di fame nello stomaco e morso di sgomento nell’anima. E, più in là, collettive prese di coscienza, centinaia di migliaia di morti, disillusioni e smarrimenti di reduci, inquietanti disagi sociali.
Come il cinema dell’epoca e dei decenni successivi, documentario o fiction, abbia raccontato della guerra entusiasmi ed orrori, Giuseppe Ghigi, cinefiliaco studioso veneziano, esperto di filmografie belliche e aggiornatissimo sulla pubblicistica in argomento, lo rievoca in un libro («Le ceneri del passato», Rubbettino ed., 261 pp., 16 ¬), non tanto in arcatura cronologica, ma in una spettroscopica pluralità di prospettive, con approcci che inquadrano l’immaginario all’interno di agganci storici, politici, culturali.
Anzitutto, quella iniziale eccitazione di militari e civili «ebbri di rose e miopi» che precipita nel raggelante risveglio di una «critica delle armi», sugli schermi a partire dal 1919 di «J’accuse» di Abel Gance e «Les Croix des bois» di Raymond Bemard. Poi, la guerra come iniziatica esperienza formativa, tra cameratismo e dura disciplina «sostituzione del padre con un educatore senza sentimenti», come nei film Usa «La grande parata» (1925) di King Vidor e dal romanzo di Erich M. Remarque «All’ovest niente di nuovo» (1930) di Lewis Milestone. Quindi, via via, una «cecità mentale» che sullo schermo si fa «cecità visiva», in Francia per una iconografia, anche di marcatura pittorica, cristallizzata sulla lontana guerra del 1870, negli Usa per una anacronistica visività eroica che risale alla Guerra di Secessione, in Italia con le varianti di una «impronta deamicisiana, risorgimentale, melodrammatica».
Ecco, tra i «punti ciechi», oltre alla incapacità con i macchinari del tempo di poter cinerappresentare le battaglie, quei cavalli «ormai arma sorpassata», sciabole e baionette «codici del passato», impreparazioni e miopìe di comandi militari e abbigliamenti ottocenteschi, «scarsa appetibilità cinematografica» delle «zone morte» tra le trincee, anche se in un «gioco di specchi» tra documenti (veri) e finzioni (false), in ogni caso con l’intento «di occultare più che di rivelare». Perciò, salvo qualche breve ripresa isolata, è «polverizzazione della battaglia reale», con immagini per lo più riprese da operatori ben protetti in trincea che servono ad un montaggio di artefatta rappresentazione «cubista» degli scontri. Solo negli anni ’20 si avranno riprese totali di battaglia, come ne è archetipo esempio in «Verdun, vision d’histoire» (1928) di Léon Poirier. In ogni caso, rispettando i due livelli diegetici, collettivo di scena e l’eroe attore singolo, sono fissate sul simbolico le stereotipìe del nemico, in Francia cliché del tedesco bieco e freddo, oltre Atlantico così stigmato da von Stroheim, in Italia dell’austriaco «cinico e tiranno usurpatore». Sono «alterità brutale da eliminare», da cui quella «macelleria del corpo», a lungo anche traslata o velata prima di lasciar posto tra traumatiche reazioni e sensi di colpa a intriganti «ferite della memoria». Sarà allora dolente elaborazione del lutto con fantasmatico culto dei morti, persino «ritorno di morti viventi», magari in quello spiritismo escatologico sin dal 1921 fissato da Rex Ingrani con «I quattro cavalieri dell’Apocalisse».
Era stata la Prima Guerra Mondiale un conflitto che aveva riunito Europa e America, stornando gli Stati Uniti dalla sua isolazionistica tradizione di un pacifismo alieno da «stragi di innocenti», sugli schermi anche con film come «Civilisation» di Thomas Ince, che dopo il 1916 il presidente Woodrow Wilson era riuscito ad aggirare sotto il fascinoso incanto di una crociata, coinvolgendo anche il cinema hollywoodiano, che però, col Griffith di «Cuori del mondo» ne fa una sorta di avventurato «secondo tempo» della Guerra di Secessione, e altrove appena «un episodio nella vitaindividuale, familiare, una parentesi orribile che si ricompone in un finale lieto», anche con personaggi femminili motori delle vicende in casa, nelle fabbriche, nei campi, magari ballerine e prostitute per le truppe, ma esemplari persino con eroine al fronte, come sin dal 1917 in Usa la Mary Pickford di «The Little American», regista Cecil de Mille, e in Francia la Sarah Bernhardt di «Méres frarmises» dei registi Louis Marcanton e René Hervil.
Con la fine della guerra anche l’Europa non è più la stessa, «ha lasciato troppa cenere». Intrigano dinamiche sociali di reduci, invalidi, disoccupati. E il cinema lo riflette, ma con una certa misura e sentimentalmistura, specie da Hollywood per non perdere i mercati e deludere le attese del pubblico.
Alla Grande Guerra vista dal cinema dedica una rassegna, dal 19 novembre, il gruppo Videoamici, al cinema del Villaggio Sereno in città
di Alberto Pesce
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