«Ciao giovane». Ti accoglieva così, nella sua casa al Testaccio piena di libri. Le pile dei giornali. Il simbolo della Trinacria. La foto con Yasser Arafat. Il disegno di Renato Guttuso alla parete, la colomba della pace schizzata per il primo maggio 1982, una festa dei lavoratori drammatica. Il giorno prima la mafia aveva massacrato il suo amico Pio La Torre, segretario siciliano del Pci, con Rosario Di Salvo. La mafia di Salvatore Giuliano aveva sparato sui lavoratori anche il primo maggio 1947, erano morti in undici, la prima strage politico-mafiosa della storia repubblicana. Era toccato a lui parlare nel primo comizio dopo l’eccidio, a 23 anni, appena scelto come segretario regionale della Cgil di Giuseppe Di Vittorio. Il compagno Macaluso c’era, c’è sempre stato, nella storia del sindacato e del partito. La sua vita coincideva con la storia della sinistra italiana e se n’è andato quasi lo stesso giorno del centenario della fondazione del Pci.
Impensabile questa idea di politica oggi, nella giornata che stiamo vivendo nelle aule di Camera e Senato, di identità mutevoli, di scambi di maggioranza, di tradizioni culturali indossate come abiti di circostanza. Era divorato dalla passione per la politica e per quella dimensione particolare che ne è la lotta politica. La politica che ti inquieta, la politica cui appartieni come a un amore che ti ha travolto, la politica che ti dà senso, la politica che ti consuma. E la lotta politica. Della lotta politica, anche la più spietata, Macaluso ha conosciuto ogni aspetto, praticando manovre, cambi di linea, scomuniche. Qualcosa di diverso, però, dalla battaglia politica, che invece vedeva tramontata.
La vita nel Pci, le prime esperienze politiche, la politica e i suoi protagonisti che cambiano. L’intervista di Marco Damilano a Emanuele Macaluso, storico senatore e dirigente del Pci, realizzata a settembre 2020 in occasione della “Maratona per il No” organizzata dall’Espresso prima del referendum sul taglio dei Parlamentari Degli eredi ripeteva di non rassegnarsi all’idea che un partito potesse dismettere completamente la battaglia per cambiare gli equilibri nella società prima che nel Palazzo. «La crisi della sinistra nasce da qui: quando il Pci era all’opposizione aveva un progetto di governo, quando il Pds-Ds-Pd è andato al governo non ha avuto più nessun progetto. Togliatti voleva andare democraticamente e gradualmente verso il socialismo, sarà stato sbagliato, ma ora l’obiettivo di stare al governo è scisso totalmente da un’idea di società. Si sta al governo senza un progetto, senza un orizzonte politico». Aveva infatti dedicato gli ultimi mesi a ripetere che la sinistra non può avere paura delle elezioni, del popolo. «Ai dirigenti del Pd dico: cercate di ragionare e mettere mano con serietà alla vita del vostro partito, oggi quasi solo sulla scena. Fatene, se ne siete capaci, con una ricca, reale e articolata vita democratica, un partito del popolo» (2015). Un progetto dentro la storia, immerso nella realtà: era la lezione del comunismo italiano. Un riformista, certo, ma non un riformista generico. «Quel che è possibile fare, bisogna farlo. È poco? Bisogna farlo. È molto? Bisogna farlo», aveva sintetizzato il suo credo con Diego Bianchi un anno fa, in una lunga intervista per “Propaganda Live”, qualche giorno prima che il covid venisse a cambiare le nostre vite.
Aveva conosciuto l’oppressione e la liberazione, anche sul piano personale, come aveva raccontato. Era stato condannato a sei mesi e mezzo per adulterio con la compagna Lina che era già sposata e da cui aveva avuto i miei due figli. Molti anni dopo i servizi indagarono sulla sua famiglia, volevano processarlo per alterazione dello stato civile perché aveva registrato i bambini all’anagrafe come “figli di Emanuele Macaluso e di donna che non vuole essere riconosciuta”, all’epoca non c’era il divorzio. «Nella Prima Repubblica la guerra politica si faceva con armi proprie e armi improprie», commentava.
Nella sua autobiografia “50 anni nel Pci” (Rubbettino) aveva poi avuto il coraggio di raccontare un’altra delicata vicenda privata: la sua relazione amorosa con Eugenia Peggio finita in tragedia, con il suicidio della donna. «A darmi la notizia fu Natta: mi telefonò a Firenze dove avevo tenuto una riunione in preparazione dell’XI Congresso. Mi parve che mi cadesse il mondo addosso. Non credo di avere mai sentito un’emozione e un dolore così lancinanti. Mi hanno segnato per tutta la vita».
Altri dirigenti erano come di cera, lui era di carne e di sangue. Fortissimo nella sua appartenenza rivendicata fino all’ultimo momento («Sono comunista, cazzo!») e umanissimo nella confessione delle contraddizioni, «chi ritiene di essere sempre stato coerente con la sua vita e i suoi principi lo considero un ipocrita, io mi sono contraddetto più volte», nei sentimenti non più trattenuti. È stato anche un grande giornalista, un direttore, uno straordinario corsivista con la firma Em.Ma, sull’Unità, e poi sul Riformista e anche sulla rete, su facebook, dove non mancava mai all’appuntamento quotidiano. Una penna feroce, dissacrante. Ho pensato che per lui, amico di Leonardo Sciascia, la scrittura e la polemica giornalistica fossero una seconda pelle, l’altro mestiere.
Il mio ultimo incontro con lui è stato nei giorni della campagna referendaria per il taglio dei parlamentari, quattro mesi fa. Aveva votato No, si era detto contrario a unire la riforma della Costituzione alla tenuta della maggioranza. Raccontò del suo primo intervento da deputato nell’aula della Camera nel 1963, per la fiducia al governo Moro. Parlò con la solita lucidità, la curiosità di vedere cosa sarebbe successo. Disse tante cose e molte altre ne chiese. Era il 7 settembre, l’estate stava per finire, indossava pantaloni jeans e una camicia blu, un ragazzo di novantasei anni ancora desideroso di capire. Lo osservai in quel scorcio di luce con una precoce malinconia, la nostalgia di quel momento che stavo vivendo, il privilegio di ascoltarlo ancora. Alla fine, di nuovo quel saluto alla porta: Ciao giovane. Sì, ti vogliamo bene, come in quel titolo semplice che hai fatto nel giugno 1984 da direttore dell’Unità, quando morì Berlinguer. Ciao giovane, carissimo compagno Macaluso.
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