Renato Cantore firma un altro pezzo della nostra storia, muovendosi dalla sua terra d’origine e attraversando l’America.
Se con il precedente ci aveva portato a quel fatidico go che mandò l’uomo sulla luna con Rocco Petrone, con il nuovo, sempre per Rubbettino Editore, ci guida tra le strade di Harlem italiana, attraverso due personaggi visionari e strepitosi: Covello e Marcantonio, l’uno originario di Avigliano e l’altro di Picerno, due paesi lucani.
Quello che ammiro e apprezzo della scrittura di Cantore è non rinnegare mai la sua postura da giornalista, ma di piegarla alla narrazione così da essere non solo credibile ma sempre puntuto e puntuale, di straordinaria affabulazione, nella ricostruzione storica, sociale, politica e culturale, che mi sembra sia il punto focale del suo interesse di scrittore.
L’attenzione del giornalista e dello scrittore in Harlem, Italia è volta all’identità e a come questo concetto, coniugato con l’istruzione e l’educazione possa essere leva per aprire, accogliere, accettare, convivere.
È questo il folle, generoso progetto dei suoi personaggi, che escono dalla loro storia di emigrazione non semplicemente come riscatto dalle umili origini, come fu per Rocco Petrone, ma come coinvolgimento attivo e concreto a cambiare radicalmente e a combattere i pregiudizi sulla comunità italiana in America e a valorizzare il patrimonio culturale, linguistico, religioso e letterario perché sia trasformato in spinta al vivere comunitario e civico.
Una disamina accurata sull’emigrazione italiana del Novecento e sull’identità italiana all’estero, con radici nella terra lucana in cui Cantore è nato e brillantemente opera, fondamentale di questi tempi per ristabilire la rotta di certi discorsi identitari volti a escludere, laddove con Covello e Marcantonio, Cantore ribadisce con forza che l’identità può e deve essere utilizzata come forza di propulsione all’accettazione del diverso e alla sua valorizzazione.
A Cantore il merito di innovare con il suo sguardo sempre attento e vigile la narrazione della Basilicata pur innestandola con acutezza storica nel suo passato, di miseria ma non misero di occasioni ed esistenze fondanti.
Come è arrivato ad Harlem, Italia Renato Cantore? Chi lo ha accompagnato e come ha conosciuto i tre italo-americani che ri-vivono con la loro visionaria avventura esistenziale nelle pagine del libro: Leonard Covello, Vito Marcantonio, e più defilato ma comunque fondamentale, Fiorello La Guardia?
RISPOSTA: Sono arrivato ad Harlem per il desiderio di raccontare un’emigrazione senza retorica: né lacrime napoletane né solo successi clamorosi di singole persone che ce l’hanno fatta. Ad Harlem mi sono fatto coinvolgere nel lungo, difficile cammino di un’intera comunità, gente povera ma non disperata, accolta con sospetto, emarginata in un quartiere degradato, ma che è stata capace di superare enormi difficoltà dotandosi – ed è un caso quasi unico nella storia delle piccole Italie di America – di una classe dirigente. La Guardia, primo sindaco italo-americano di New York, Marcantonio, deputato per sette legislature, e Covello, grande educatore e fondatore della prima scuola superiore di Harlem, sono gli esempi più clamorosi di questa classe dirigente. Il loro sogno americano non è stato quello di salvarsi da soli, ma di crescere insieme alla comunità. Con loro i “lazzaroni indesiderabili” (così li definiva il New York Times), divennero cittadini americani a pieno titolo.
Il tema dell’emigrazione era dominante anche nel tuo libro precedente: Dalla Terra alla luna. Rocco Petrone, l’italiano dell’Apollo 11. [QUI il link alla lettura che ne ho fatto per il blog]
Anche Petrone era di origini lucane. Eppure la sua epopea ha un significato molto diverso da quella di Covello e Marcantonio. Il primo è l’incarnazione del sogno americano, come già il costruttore Charles Paterno, protagonista di Il castello sull’Hudson. Charles Paterno e il sogno americano, tutti pubblicati per Rubbettino. Quello di Petrone è però con la maiuscola: lo sbarco sulla luna. Certo “un passo avanti per l’umanità” intera, ma di fatto quella di Petrone è una storia di riscatto personale e individuale. Covello e Marcantonio, invece, rappresentano il riscatto della comunità italiana in America. Non a caso tu crei un parallelo con la statua della Madonna del Carmine, che dai sotterranei della chiesa che gli italiani avevano costruito con fatica e sacrifici senza che gli valessero un posto d’onore nella navata, finalmente assurge all’altare centrale.
C’è un filo che collega i quattro protagonisti dei tuoi libri? Una storia sfaccettata dell’emigrazione che stai dipanando e impreziosendo e che sta diventando anche un racconto, nuovo particolare avvincente, della Basilicata?
RISPOSTA: Hai colto un punto essenziale. In effetti la mia è una ricerca di senso su quella che, come tento di dimostrare, non è una triste storia di vinti, ma una grande epopea di un popolo coraggioso e visionario. Partire dai nostri piccoli paesi aggrappati alle montagne, attraversare l’Oceano, arrivare in un mondo tanto diverso e dove si parlava una lingua sconosciuta, era per tutti una grande sfida, non una sconfitta. Questa sfida è il legame che unisce tutte le storie che ho raccontato. Poi, certo, ci sono le differenze. E questa di Covello e Marcantonio rovescia un po’ lo stereotipo dell’italo-americano che ce l’ha fatta e corre a godersi i suoi successi nei quartieri eleganti della metropoli. I protagonisti di questa storia hanno deciso di condividere fino alla fine la loro avventura umana con quella della loro gente. Hanno abitato quasi porta a porta nel cuore dell’Harlem italiana, rinunciando a prospettive economiche e di carriera anche molto allettanti, pur di non rinunciare a quella che hanno sentito come una missione: far crescere la comunità lavorando soprattutto su due prospettive: l’educazione e i diritti. La Statua della Madonna del Carmine, arrivata da Polla, che ci mette più di vent’anni per conquistare il suo posto nella chiesa degli italiani, è un po’ il paradigma di questa epopea popolare.
Lo confesso apertamente, Renato, il mio cuore batte appassionatamente per Covello. Forse perché mi rivedo e riverbero nelle sue intuizioni pedagogiche, e ammiro la sua visionarietà: l’identità non come elemento di esclusività o di limitazione, ma come chiave di apertura e inclusione, parola chiave che ancora oggi stenta a concretizzarsi nella scuola in Italia. Le sue battaglie perché l’italiano entri a fare parte delle discipline d’insegnamento al pari di francese, inglese e tedesco sono lungimiranti. Scuole non solo per italiani, ma aperte anche a tutte le minoranze che affollano Harlem, perché l’italiano diventi patrimonio di valore e di vanto. Quanta modernità in questa sua intuizione e quanta caparbia e tenacia nel realizzarla.
Dove attinge un immaginario così potente Leonard Covello?
RISPOSTA: Attinge direttamente alla sua esperienza di vita. Fin da piccolo, anche se in maniera ancora confusa, come capita a un ragazzo, capisce che per costruire un futuro per sé e per la sua comunità deve superare soprattutto due grandi ostacoli: un certo fatalismo della cultura contadina (con il richiamo rassegnato, di fronte alle avversità, alla “volontà di Dio”) e un’idea della americanizzazione che passava attraverso la cancellazione delle identità nazionali dei migranti. Si diventava veramente “americani” solo a costo di vergognarsi della propria famiglia. E questo Leonard lo trovò intollerabile.
Ben presto Covello incontrerà Marcantonio e dalla loro complicità, prima nella relazione docente/discente e poi da un sodalizio di intenti e di immaginario, nasce tutto quello che ha rivoluzionato il modo di concepire l’identità italiana sia tra gli stessi italoamericani, ma cosa fondamentale anche nel resto della comunità multietnica di Harlem, di New York e forse degli Stati Uniti.
Che cosa lega questi due uomini e quale elemento predominante ha messo insieme in modo indissolubile i loro destini, nella diversità delle loro esistenze?
RISPOSTA: Io credo che li leghi soprattutto un’idea visionaria e, mi verrebbe da dire, rivoluzionaria. In un momento nel quale in tanti costruivano le loro carriere politiche e professionali soffiando sul fuoco delle divisioni etniche e razziali, Covello e Marcantonio hanno puntato sulla diffusione di un forte sentimento di unità, partendo dagli interessi comuni della gente più bisognosa, senza badare alle origini, alla lingua, al colore della pelle. Insomma, Leonard Covello non ha mai voluto che la sua scuola fosse chiamata la scuola degli italiani. E così Marcantonio non è mai stato solo il deputato degli italiani.
E per concludere questa nostra chiacchierata, vorrei entrare nel tuo metodo di scrittura. Perché è vero che nei tuoi libri ci sono sempre dei protagonisti determinanti, ma ne approfitti ogni volta per allargare lo sguardo e impreziosire i dettagli così da creare un quadro d’insieme che sia anche racconto della temperie storica in cui si incastonano.
La guerra fredda per Rocco Petrone, la migrazione americana per Covello e Marcantonio. I tuoi libri sono sempre documentatissimi senza perdere la fascinazione della narrazione. E nella ricchezza di particolari e l’attenzione per la ricostruzione del passato colgono sempre spunti, semi e opportunità per guardare al presente e immaginare il futuro.
Come si muove Renato Cantore quando scrive un libro? E che cosa in particolare è stato necessario dal punto di vista della documentazione per arrivare a Harlem, Italia?
RISPOSTA: Beh, in questo diciamo che io resto sempre un giornalista, un curioso della vita, abituato sempre a cercare il contesto nel quale certi avvenimenti si sviluppano e certi personaggi riescono ad emergere.
In questo caso, la vicenda umana di Covello e Marcantonio non poteva che svilupparsi in quegli anni e in quell’ambiente, che perciò meritava di essere raccontato, come andavano raccontati gli avvenimenti che hanno caratterizzato la prima metà del novecento, visto ovviamente dalla prospettiva del popolo di Harlem.
Ad Harlem, Italia ci sono arrivato leggendo molto, consultando studiosi ed esperti di qua e di là dell’oceano, spulciando carte e compulsando gli archivi dei giornali (che per fortuna ora sono online). Ma per entrare meglio dentro questa storia ho fatto parecchi sopralluoghi di persona nel quartiere, trascinando l’incolpevole Margherita, mia moglie, in una specie di tour della memoria in quella che era l’Harlem italiana, alla ricerca di ricordi, testimonianze, volti, scenari urbani. Solo quando ero sicuro di aver in qualche modo interiorizzato lo spirito dei luoghi mi sono sentito pronto per cominciare a scrivere.