Da Formiche.net del 17 febbraio
Faccio una rara eccezione alla regola che mi sono dato di non scrivere di o su Paesi che ho visitato ed analizzato nel mio lavoro per organizzazioni internazionali. Ho avuto modo di conoscere l’Egitto bene, in situazioni politiche molto differenti. Nel 1969, quando feci un lungo soggiorno per studiare l’economia industriale del Paese (nel contesto di una missione della Banca Mondiale) dopo la guerra dei ‘sette giorni’ allora governava Gabal Abdel Nasser e l’economia era organizzata seguendo il modello della Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est). Nel 1980, in anno sabbatico dalla Banca Mondiale, ho studiato le migrazioni dall’Egitto verso i Paesi del Golfo, nel quadro di un team organizzato dalla Ford Foundation, dal Deutches Orient Institut, e dall’Istituto Affari Internazionali. Allora si è era nel pieno dell’apertura verso l’Occidente di Anwar al-Sadat. Ho successivamente fatto visite più brevi ma ho conservato contatti con amici e studiosi egiziani.
Nella galassia di servizi più o meno segreti che, con vari gradi di lealtà supportano il governo in carica, e nella vasta gamma di opposizioni che lo contrastano ma litigano tra loro, sarà difficilissimo trovare il bandolo della matassa del ‘caso Regeni’ ed individuare i colpevoli. Il ritrovamento del cadavere – Amnesty International parla di almeno 500 persone, anche minori, sparite in carceri egiziane – induce a congetturare la possibilità che Giulio Regeni sia stato torturato, ucciso e messo in mostra nei pressi del Cairo da qualche gruppo dell’opposizione (di cui lui si era fidato e con cui era in contatto) allo scopo di rendere più difficili i rapporti tra Egitto ed Italia proprio nella fase in cui le relazioni economiche tra i due Stati si intensificavano ed in cui numerosi Paesi del mondo occidentale considerano il Paese come un baluardo contro l’avanzata dell’Isis, con associata ondata di terrorismo internazionale.
Sta agli inquirenti, italiani ed egiziani, cercare di sbrogliare il ‘pasticciaccio’. Da economista, ormai distante dai problemi del Nord Africa e del Medio Oriente, ritengo tuttavia che gli investigatori debbano collocare la vicenda in un quadro più vasto, utilizzando gli strumenti della storia e della sociologia. A mio avviso, un ausilio importante è fornito dall’ultimo saggio di Luciano Pellicani, professore emerito della Luiss-Guido Carli, L’Occidente ed i suoi nemici (Rubbettino, 2016).
In effetti quanto sta avvenendo nel mondo arabo e non solo (dal ‘caso Regeni’ all’assalto al Bataclan di Parigi) si comprende solamente se inquadrato in un fenomeno che l’opinione pubblica ed anche gli studiosi credevano ormai sparito: l’odio verso l’Occidente.
Un quarto di secolo fa, numerosi intellettuali invitati ad una delle prime ‘letture’ del Mulino (allora si tenevano non nell’aula magna dell’ateneo felsineo ma in un villa sulle colline bolognesi) furono sorpresi quando uno dei massimi storici del Vicino Oriente, Bernard Lewis, parlò di ‘odio nei confronti dell’Occidente’ e ne scavò le radici politiche, economiche e culturali.
Il saggio di Pellicani non solo è aggiornato e tiene conto delle vicende e delle ricerche degli ultimi 25 anni, ma parte da lontano. Ossia dall’analisi di come già millenni fa esistessero ‘i nemici della società aperta’ che lottavano ‘contro la modernità’ e scava anche (e soprattutto) nei gruppi e nelle comunità di occidentali che militano contro la civiltà dei diritti e delle libertà che in Occidente ha trovato il suo più completo modo di espressione. In effetti, è da ‘il suicidio dell’Europa’ (la prima guerra mondiale) che nascono i ‘rivoluzionari di professione’ che, in varie tendenze (leninismo, stalinismo, fascismo, nazismo, vari totalitarismi e giacobinismi), che si diedero come missione quella di distruggere i valori della società aperta occidentale.
Dalla guerra permanente tra Sparta ed Atene si è passati alla ‘guerra culturale’ anch’essa permanente ma più violenta in quanto imbastita di terrorismo e di violenza, tra Atene e Gerusalemme. Si è anche tornati alle guerre di religione che in Europa pensavamo di avere terminato con la pace di Westfalia del 1618. A differenza di Bernard Lewis che poneva l’accento sul “proletario esterno” (memore di essere all’avanguardia delle scienze, della tecnologia, della cultura attorno dall’anno mille e di aver accerchiato Vienna nel 1683) come leva e motore della guerra lanciata da buona parte del mondo islamico contro l’Occidente, il documentato saggio di Luciano Pellicani (circa 450 pagine), ci ammonisce che proprio in seno all’Europa “sono scaturiti travolgenti movimenti rivoluzionari di massa – comunismo, fascismo, nazismo – animati dall’intenso desiderio di fare tabula rasa della civiltà liberale, bollata come il regno di Mammona e dei suoi avidi adoratori”.
Cosa c’entra tutto questo con il ‘caso Regeni’? L’Egitto di oggi viene descritto così dall’ultimo aggiornamento dell’Enciclopedia italiana
Con l’elezione dell’ex feldmaresciallo Abdel Fattah al-Sisi a presidente della repubblica nel maggio 2014, l’Egitto sembra incamminarsi verso un percorso di stabilizzazione chiudendo così il suo ciclo rivoluzionario iniziato nel febbraio del 2011, quando l’allora capo di Stato Hosni Mubarak fu costretto a rassegnare le dimissioni in seguito alle vibranti proteste di massa che avevano attraversato il paese a partire dal 25 gennaio. Nonostante il voto plebiscitario conseguito (secondo l’Alta corte elettorale al-Sisi ha ottenuto il 96,91% dei suffragi battendo il nasserista Hamdeen Sabbahi), la transizione egiziana non può definirsi totalmente conclusa in quanto una serie di problemi di varia natura rende ancora irto il cammino di stabilità egiziana. Economia, sicurezza e processo democratico continuano a rappresentare le incognite di maggior rilievo per il nuovo establishment al potere. A queste bisogna infine aggiungere le violenze tra laici e islamisti che hanno lacerato il Paese e che sono state riverberate dopo il ritorno sulla scena nazionale dei militari il 3 luglio 2014 quando venne deposto con un golpe il presidente Mohammed Morsi. Morsi non è riuscito a garantire né l’unità del tessuto sociale del paese, né a porre un freno alla crescente polarizzazione del sistema egiziano chiudendo invece ad ogni richiesta di apertura politica da parte dei suoi stessi cittadini e degli apparati di potere (su tutti magistratura ed esercito). Ne è conseguito un intervento diretto dei militari per instaurare un nuovo regime e lanciare una quasi immediata repressione della Fratellanza musulmana, a cui hanno fatto seguito le decisioni del governo di dichiarare il movimento islamista come ‘organizzazione terroristica’ (dicembre 2013) a seguito di alcuni attentati avvenuti nel paese, nonché l’arresto di suoi numerosi membri, culminati nell’aprile 2014 in una condanna a morte nei confronti di 1200 membri aderenti al movimento fondato da Hassan al-Banna. A queste azioni eclatanti hanno fatto seguito quelle altrettanto rilevanti della magistratura cairota di mettere al bando Hamas (marzo 2014) e il Partito libertà e giustizia, quest’ultimo braccio politico dell’Ikhwan (agosto 2014). In questo clima di incertezza e contrapposizione, al-Sisi si è proposto come l’uomo forte d’Egitto e l’unica persona in grado di garantire l’ordine e la stabilità necessaria al paese. Tuttavia, il giro di vite lanciato dalle autorità centrali egiziane ha aumentato anche il rischio di radicalizzare il confronto non solo con la Fratellanza musulmana, ma anche con tutte le altre entità islamiste alcune delle quali attive nel Sinai e vicino il confine libico, con lo scopo di destabilizzare il potere centrale attraverso un’insurrezione armata.
L’onda lunga del golpe 2013 non si è limitata al solo ambito interno ma ha avuto importanti ripercussioni anche nelle relazioni esterne, le quali hanno conservato alcuni tratti di continuità con il passato mubarakiano. Le priorità dei governi di transizione e di quello di Abdel Fattah al-Sisi sono state centrate sul mantenimento di legami cordiali con gli Stati Uniti e l’Unione europea e sulla ricerca di nuovi partner economici, commerciali e militari come la Russia e la Cina rafforzando, allo stesso tempo, i rapporti con le monarchie arabe del Golfo, principali sponsor politici ed economici del nuovo corso egiziano. Finora questa strategia ha funzionato relativamente bene garantendo al Cairo una liquidità necessaria a coprire il fabbisogno primario grazie soprattutto ai finanziamenti giunti dal Kuwait, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti che hanno versato nelle casse dello stato circa una ventina di dollari in due pacchetti distinti. In particolare Riyadh, il maggiore alleato del nuovo corso egiziano, si è fatto promotore in più occasioni con gli altri partner arabi e internazionali per l’istituzione di una conferenza di donatori per l’Egitto in grado di favorirne una stabilizzazione economica e quindi anche politica. L’intervento non disinteressato di Riyadh ha permesso allo stesso tempo un allontanamento del Cairo dalle relazioni con i filo-islamisti Turchia e soprattutto Qatar, che prima della destituzione di Morsi era il principale partner economico e politico degli islamisti egiziani.
È un quadro che tratteggia un cammino lungo, ed in salita, verso la modernizzazione. Lo era anche nell’Egitto di Nasser e di Sadat. Chi ha il compito di indagare sul ‘caso Regeni’ dovrebbe chiedersi se in questo quadro, oltre alle numerose fazioni pro e contro il governo di al-Sisi, su quanto avviene al Cairo non soffino anche ‘rivoluzioni di professione’ europei, che nella loro lotta a volte isterica contro ‘la modernizzazione’.
Non è la prima volta che avvengono vicende del genere. Nel 1980 sparirono in Libano due giornalisti italiani, Italo Toni e Graziella De Paolo. Toni aveva vissuto a lungo al Cairo ed aveva una grande ammirazione per Nasser. In Italia aveva scritto spesso per testate che si potrebbero chiamare giacobine. Era per la prima volta in una catena di giornali locali d’informazione, I Diari, che ebbe vita breve ed anche travagliata. Italo Toni era, per molti aspetti, un ‘nemico dell’Occidente’: diceva di trovarsi più a suo agio nel Cairo di Nasser che nella Roma del primo centrosinistra. Di Italo Toni (e della sua collega e compagna Graziella De Paolo), a differenza di Regeni, nessuno ha mai trovato i cadaveri.
C’è, però, un tratto in comune: né Toni né Regeni pare che frequentassero l’Università Al-Azhar, la maggiore università sunnita, nonché quella più indirizzata verso la modernizzazione e di cui neanche ai tempi di Nasser, neppure nel periodo immediatamente successivo alla ‘guerra dei setti giorni’, nessuno (e soprattutto nessun governante) osò limitare la libertà di pensiero e di elaborazione.
di Giuseppe Pennisi
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