Giacomo Galeazzi, Gian Franco Svidercoschi
Chi ha paura di Giovanni Paolo II?Il Papa che ha cambiato la storia del mondo
Dott. Giacomo Galeazzi, Lei è autore con Gian Franco Svidercoschi del libro Chi ha paura di Giovanni Paolo II? Il Papa che ha cambiato la storia del mondo edito da Rubbettino: chi ha paura di Giovanni Paolo II?
Innanzitutto chi, fuori e dentro la Chiesa, vuole rimuovere la sua eredità pastorale e geopolitica. “Loro”. Anche dopo molti anni trascorsi sul Soglio di Pietro, Giovanni Paolo II era solito esprimersi cosi nei colloqui riservati quando si riferiva alla Curia vaticana: quasi un segno dell’alterità se non proprio della resistenza che per tutta la vita avverti nel governo centrale della Chiesa. Un merito che persino i suoi più irriducibili oppositori e critici hanno, seppur tardivamente, riconosciuto a Karol Wojtyla e stato quello di essere stato per vocazione naturale un talentuoso “direttore d’orchestra” in grado di scegliere per i posti chiave personalità tra loro diversissime ma tutte di grande caratura. Scelte tutt’altro che scontate come quella dell’insigne biblista ma non ancora presule Carlo Maria Martini per la guida dell’arcidiocesi di Milano, una delle più grandi del mondo, e poi anche degli episcopati europei o del diplomatico padre della Ostpolitik vaticana Agostino Casaroli come Segretario di Stato o, ancora, del semisconosciuto vescovo ausiliare Camillo Ruini alla presidenza della Conferenza Episcopale Italiana e, soprattutto, del teologo tedesco Joseph Ratzinger per la fondamentale Congregazione per la Dottrina della fede, l’ex Sant’Uffizio. In particolare la designazione nel 1981 del futuro Benedetto XVI per un incarico determinante nell’economia di un pontificato conferma la lungimiranza e il talento di Giovanni Paolo II nell’individuare personalità eccellenti malgrado la contrarietà dei circoli progressisti che consideravano il loro collega bavarese alla stregua di un “traditore” delle aperture conciliari alle quali aveva fattivamente collaborato come perito del Vaticano II. Se tra le indicazioni di governo di Karol Wojtyla la coraggiosa scelta di Joseph Ratzinger come custode della dottrina e emblematica della sua lungimirante contrarietà ad assecondare gli umori del momento, e a pontificato terminato e a pontificato terminato che si comprende nella sua interezza lo stile pastorale e il modello di leadership di Giovanni Paolo II.
Perché c’è ancora, fuori e soprattutto dentro la Chiesa, chi rifiuta l’eredità di questo Papa che ha cambiato la storia della Chiesa e del mondo?
Perché è un’eredità scomoda. Il 16 ottobre 1978 fu un giorno incredibile, straordinario. Lo si capirà più tardi, ma era l’inizio di una nuova storia, e non soltanto per la Chiesa cattolica. Era stato eletto Papa l’arcivescovo di Cracovia. Un cardinale che arrivava da dietro la “cortina di ferro”, dall’impero sovietico, giacche il mondo era ancora diviso tra i due blocchi politico-militari. Poi sarebbe arrivato un Papa tedesco. E poi un Papa addirittura dal sud del mondo, argentino. Forse non si e ancora abbastanza riflettuto su questo, ma era il tramonto definitivo dell’eurocentrismo ecclesiale. Come dire che il cattolicesimo europeo non poteva più essere il solo a interpretare (o, almeno, a pretendere di interpretare) il logos cristiano. Di fatto, era cominciato il tempo in cui, sulla cattedra di Pietro, salivano pontefici che si portavano dietro le ricchezze spirituali delle proprie Chiese, le caratteristiche delle proprie regioni, la cultura dei propri popoli: aprendo così la Chiesa universale – come del resto aveva chiesto il Concilio Vaticano II – a una pluralità di carismi, di modi di vivere la fede, di esperienze pastorali e missionarie. Ed e inevitabile che questa novità, anche se ancora cosi frammentata e frammentaria, debba provocare malumori, polemiche, contrarietà, resistenze.
In che modo Karol Wojtyla ha cambiato la storia del mondo?
È stato il primo Papa non italiano, dopo 456 anni. Un Papa che veniva dall’altra parte della cortina di ferro. “Ed e qui che la storia aveva avuto un soprassalto. Perché, proprio grazie a chi in quel momento sedeva sulla cattedra di Pietro, Solidarność prima aveva resistito alla repressione, e poi era diventato l’apripista del grande cambiamento in senso democratico all’Est”. Scriverà Enzo Bettiza: “Il comunismo è morto di comunismo, il moloch ha divorato se stesso”. Ma era stata la Polonia, “protetta” dal suo Papa. a dare il colpo del ko al regime marxista, ad accelerarne il tracollo, il definitivo fallimento. Lo aveva riconosciuto anche Michail Gorbaciov, arrivato in Vaticano nel dicembre del 1989: “Tutto ciò che è successo nell’Europa orientale in questi ultimi anni non sarebbe stato possibile senza la presenza di questo Papa, senza il grande ruolo, anche politico, che lui ha saputo giocare sulla scena mondiale”. A questo punto, viene quasi naturale porsi una domanda. Ma se invece di un Papa polacco, e dunque un pontefice con quella provenienza, con quella biografia, con quella esperienza, ci fosse stato un Papa arrivato da un altro Paese comunista, ad esempio, diciamo, ungherese, oppure cecoslovacco, o tedesco-orientale, ebbene, la caduta del Muro e il tramonto del marxismo, sarebbero avvenuti in tempi così incredibilmente brevi? E senza contrasti, senza gravi contraccolpi e, soprattutto, senza spargimenti di sangue? E ancora. E se quel 13 maggio Ali Ağca avesse mirato più “giusto” di come aveva tentato di fare e, molto probabilmente, di come gli avevano ordinato di fare. “Ma lei perché non è morto?”, chiese a Giovanni Paolo II andato a trovarlo in carcere”.
Quale progetto geopolitico questo Papa aveva disegnato per un mondo più giusto e più pacifico?
Il 1989 aveva avuto anche una preparazione, per così dire, visibile, alla luce del sole. C’era stata la rivoluzione ungherese (1956) e la Primavera di Praga (1968), ambedue soffocate tragicamente nel sangue. Ma poi, dall’inizio degli anni Settanta, il dissenso era spuntato un po’ in tutto l’Est europeo, anche se in forme e modalità assai differenti. In Cecoslovacchia, era nata Charta 77, una protesta di élite, di circoli intellettuali. Mentre, in Polonia, il contrasto si era via via trasformato in un movimento di popolo. In Polonia, appunto. Un Paese con una popolazione a grande maggioranza cattolica. E dove la Chiesa, forte, compatta, aveva un profondo radicamento in tutti i settori sociali. Nel 1956, a Poznań, c’era stata la prima delle “piccole rivoluzioni”, come le chiamava il primate, il cardinale Stefan Wyszyński; ma, pilotata da ambienti revisionisti, ancora interna al sistema, era finita nel nulla. Nel 1968, a rivoltarsi erano stati intellettuali e studenti. Nel 1970, sul Baltico, la prima vera rivolta operaia, i primi sindacati clandestini. Nel 1976, a Radom e Ursus, erano di nuovo scesi in piazza i lavoratori, ma stavolta con l’appoggio degli altri gruppi sociali: da quella inedita solidarietà, quattro anni dopo, sarebbe nato il primo sindacato libero nell’impero comunista. Senza Wojtyla la storia dell’Europa, ma anche quella del mondo intero, non sarebbero andate nel modo in cui sono andate. Infatti, oltre che per la riunificazione dell’Europa, l’azione svolta da Papa Wojtyla si era sviluppata su vari fronti. Era stata determinante per il ritorno di molti Paesi latino-americani alla democrazia, per ridare voce e dignità ai popoli del Sud, e forse addirittura, al tempo dei conflitti del Golfo, per evitare una spaventosa guerra di civiltà”. I suoi viaggi avevano fatto sì che la Chiesa, con una crescente autorevolezza morale, fosse più vicina al mondo, e il mondo, a sua volta, più vicino alla Chiesa. E spesso, nei momenti di crisi dell’umanità, con i “grandi” della Terra pavidi e silenziosi, era stato soltanto lui, Wojtyla, a parlare, a intervenire, a denunciare. Soltanto lui a testimoniare la speranza in un futuro che poteva essere diverso, nel segno della pace, della giustizia. “Tutto può cambiare”, ripeteva di continuo. “Si, noi possiamo cambiare il corso degli eventi”. Allora, come si fa a dimenticare un Papa così?
In che modo Papa Giovanni Paolo II ha realizzato concretamente molti documenti conciliari?
Per Karol Wojtyla, da vescovo, il Concilio Vaticano II era stato un’esperienza straordinaria. Anzitutto, aveva rappresentato una grande scuola di approfondimento dottrinale, anche per il confronto con le nuove tendenze teologiche, e di aggiornamento pastorale. Non solo. Attraverso il dibattito conciliare, monsignor Wojtyla aveva ritrovato, e quindi maturato, molte delle questioni che aveva affrontato nel suo ministero episcopale a Cracovia. Come il rinnovamento liturgico, l’ecumenismo, i rapporti con l’ebraismo, una più attiva partecipazione della Chiesa. Per non parlare della libertà religiosa, un problema profondamente avvertito in un Paese oppresso da due totalitarismi, l’uno dopo l’altro, quello nazista e quello comunista. Il Concilio, insomma, era stato una svolta per il giovane arcivescovo. Da lì, infatti, era partito, con un sinodo diocesano, per riplasmare la vita della comunità ecclesiale di Cracovia. E da lì, diventato Papa, si era ispirato per quelle che sarebbero diventate tra le maggiori caratteristiche del suo pontificato: un nuovo umanesimo, con la riaffermazione della centralità della persona in una visione fortemente cristocentrica; e l’apertura, con il Vangelo in mano, al mondo, per ristabilire un dialogo depurato ormai da ogni pretesa di integralismo, ma anche per rivendicare il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo, di ogni uomo. Come nella parabola evangelica, il pontificato di Karol Wojtyla ha provvidenzialmente fatto fiorire i talenti ricevuti in dono da Dio. Il libro “Chi ha paura di Giovanni Paolo II”, scritto con un maestro di giornalismo vaticano come Gianfranco Svidercoschi, si collega idealmente e completa un altro mio saggio e cioè “Il Concilio di Papa Francesco” (Elledici, con la prefazione del presidente dell’Apsa, monsignor Nunzio Galantino e l’introduzione del vaticanista Andrea Tornielli). Per il padre conciliare Karol Wojtyla, Il Vaticano II, dopo aver approfondito il mistero della Chiesa, si è interessato del mondo moderno, dell’uomo fenomenico, quale si presenta oggi. Perciò la missione di evangelizzazione e di salvezza ha spinto il concilio a superare le distinzioni e le fratture, a rivolgersi all’intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive. Secondo Giovanni Paolo II si è trattato di un dialogo, per portare a tutta la famiglia umana la salvezza, per collaborare al suo vero bene ed alla soluzione dei gravi problemi, nella luce del Vangelo. La costituzione Gaudium et Spes espone la dottrina cattolica sui grandi temi: vocazione dell’uomo, dignità della persona umana, ateismo, attività umana, matrimonio, fame, cultura, vita economico-sociale, pace, guerra, comunità dei popoli. All’umanesimo laico, chiuso nell’ordine naturale, viene opposto l’umanesimo cristiano, aperto al trascendente, che presenta la concezione teocentrica dell’uomo, ricondotto a ritrovare se stesso nella luce e nello splendore di Dio. Nella visione conciliare di Giovanni Paolo II la ragione della dignità umana consiste nella vocazione dell’uomo alla comunione con Dio, quindi il Concilio rivolge a tutti gli uomini l’invito ad accogliere la luce del Vangelo. Il Vaticano II, ha affermato Giovanni Paolo II, resta l’avvenimento fondamentale della vita della Chiesa contemporanea; fondamentale per l’approfondimento delle ricchezze affidatele da Cristo; fondamentale per il contatto fecondo con il mondo contemporaneo in una prospettiva d’evangelizzazione e di dialogo ad ogni livello con tutti gli uomini di retta coscienza.
A distanza di quasi quindici anni dalla sua morte, qual è l’eredità del pontificato di Wojtyla?
Il suo è un lascito soprattutto da valorizzare nella Chiesa. Fu papa Wojtyla, infatti, a dare una poderosa spallata a quella che una volta aveva criticato come «l’antica unilateralità clericale»; ma fu poi la “realtà” profonda del cattolicesimo, sotto l’azione dello Spirito, a emergere alla superficie, a imporre nuovi protagonisti – i giovani, i movimenti, le donne – e nuove vie – il passaggio da una Chiesa gerarchica, clericale, a una Chiesa più comunitaria, più laicale, più popolo di Dio. Una eredità che è “dono” ma anche “compito”, e perciò andrebbe fatta fruttificare più largamente, più profondamente di quanto si sia realizzato finora. Aiutando in particolare i credenti a riscoprire gli insegnamenti di papa Wojtyla, e a declinarli nella loro vita, quella religiosa anzitutto, ma anche quella immersa nella società, nella realtà di tutti i giorni. E comunque, che il patrimonio umano e spirituale di san Giovanni Paolo II non andrà, non potrà andare perduto, l’ha “mostrato” visibilmente quella immensa folla che, dopo i giorni della morte e del funerale, cominciò a visitare la sua tomba, nelle grotte vaticane; e, in dimensioni ovviamente ridotte, continua ancora oggi ad andare a trovarlo. Una straordinaria varietà di volti, di esperienze, di emozioni, di sentimenti, di situazioni. E un dialogo che ha dell’incredibile. Dialogo di cuori, di anime. Dialogo pieno di storie. Pieno del mistero di Dio. Pieno di vita. Una fede che finalmente è vita. E un Papa che, grazie al suo popolo, non muore. Continua a vivere.
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