Da Il Foglio del 10 novembre
Roma. Prima della trattativa stato-mafia, con i suoi cantori, ci sono stati e hanno proliferato a lungo i professionisti dell’antimafia. Tutti sanno cosa sono i professionisti dell’antimafia in pochi sanno però che tutto inizia da Christopher Duggan: nato a Londra il 4 novembre 1957; morto lo scorso 2 novembre. Gli studiosi e i cultori di storia italiana contemporanea hanno avuto modo di conoscerlo bene: docente di Storia italiana all’Università di Reading, direttore del Centre for the Advanced Study of Italian Society dello stesso ateneo. Probabilmente, invece, il lettore medio di Travaglio e di Saviano non ne ha mai sentito parlare. E il problema è proprio li. Allievo di Denis Mack Smith ma in definitiva poi vicino più all’approccio di Renzo De Felice (il suo percorso era infatti iniziato con una tesi di laurea sulla mafia durante il fascismo, pubblicata in italiano da Rubbettino nel 1987) ed era stato proprio nel recensire per il Corriere della Sera quel libro che Leonardo Sciascia il 10 gennaio 1987 aveva fatto partire la famosa polemica. Prevedendo la baraonda che si sarebbe scatenata, lo scrittore siciliano aveva premesso al testo due citazioni da “Il giorno della civetta” e da “A ciascuno il suo”: a ricordare esplicitamente che era stato lui un pioniere nella denuncia della mafia. Ma Duggan aveva fatto un’analisi da cui Sciascia era stato fortemente colpito. “Come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange ‘rivoluzionarie’ per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano… liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti”. La durissima repressione del famoso prefetto Mori non era dunque che “il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra, che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime – o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come mafioso”.
La morale “dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta”? “L’antimafia come strumento di potere”. “Può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno”. Oggi purtroppo Sciascia non c’è più, e neanche Duggan. Ma resta l’antimafia professionale con tutti i suoi cantori spesso devoti più al verbo delle patacche che al verbo della legalità.
di Maurizio Stefanini
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