“Un fotografo non dovrebbe mai scrivere un libro ma solo illustrarlo”. Perché “vedere e più necessario che scrivere”. Be’, se sei un fotografo, la seconda cosa è sicuramente vera.
Quanto alla prima, vedete, il mio amico Salvatore la contraddice dolcemente nel momento stesso in cui la afferma.
Perché quel consiglio lo trovo in una delle oltre quattrocento pagine (sì, molto illustrate con le sue fotografie, ma soprattutto scritte con le sue parole) del suo libro, Il perduto incanto, che mi ha tenuto dolcemente e un po’ melanconicamente compagnia durante un lungo viaggio in treno. E dunque?
Salvatore Piermarini, spero lo conosciate. Probabilmente molti di voi conoscono me attraverso di lui, perché la mia immagine di profilo sui social network è l’ironica, gentile caricatura che mi fece e mi regalò nel 2013, uscita dalla penna con cui ha messo assieme un’intera disegnata storia della fotografia che è ancora, ma spero per poco, inedita.
Lui comunque è un grande fotografo appartato e profondo, settantenne tondo quest’anno, un fotografo di artisti a cui anche l’etichetta di reporter veste bene, ma a volte un po’ stretta, un antropologo forse, concettuale a volte, comunque avido di visioni umane negli estremi del disagio come negli splendori delle metropoli, discepolo intellettuale di due grand maestri che sembrerebbero cosi distanti, Ugo Mulas e Wim Wenders.
Vi invito a conoscerlo meglio, perché qui non vi parlerò troppo del suo lavoro, ma molto della sua idea di fotografia. Della sua, e della Fotografia con la maiuscola. A cui ha dedicato una vita intera, senza mai esitazioni, anche se con tanti dubbi.
I dubbi del fotografo, ecco, vorrei parlare di questo. Per Salvatore il mestiere del fotografo è molto lontano dalla ossessione della perfezione che sembra travolgere i suoi colleghi di oggi, assistiti da software più potenti della loro capacità di scelta.
E così Salvatore rivendica il ruolo “dell’imperfezione, del non finito, dell’incertezza, del dubbio perenne, delle zone d’ombra, delle indicazioni e delle presunzioni”.
In una parola: pensa che la cosa migliore che si possa fare alla fotografia, oggi, sia “restituirle l’impotenza”.
Un po’ forte come consiglio, vero? Un po’ indigeribile per la presunzione di una tecnica che sembra aspirare alla pre-potenza assoluta sul mondo: milioni di pixel per catturare tutto, e software spaziali per trasformarlo in tutt’altro.
Ma “non c’è ancora nessuna intelligenza artificiale in grado di sostituire il perenne vagare del fotografo”, rivendica Salvatore. Con ina verve che lo porta a rifiutare per principio la tecnologia digitale, “ambiguo impalpabile video gioco di massa”.
Sa bene che su quel terreno non lo seguirò fino alla fine. Ma capisco quel che cerca di salvare.
Salvare l’antropologia del fotografo, non demiurgo sovrumano (grazie alla tecnica) ma “piccolo puntatore di sguardi”, “peccatore invasato che non conosce pentimento”, perfino “irriducibile presuntuoso” nella sua ambizione di condividere sguardi sul mondo reale, qualunque scelga fra le due le due mosse alternative del torero: il recibiendo (attendere il toro del reale be piantati al suolo) e il volapiè (corrergli incontro, scartarlo e banderillarlo al volo).
Piermarini ha fatto entrambe le cose, in realtà, le ha mescolate, ha fotografato le architetture a mano libera come fosse un reportagista, ha fatto ritratti statuari, ha raccolto con precauzione e costruito con emozione. Da “disciplinato e fedele fotografo visionario, quanto basta per essere anche molto indisciplinato”.
Cercando, in fondo, di ripetere un gesto primordiale, intimo, originario dell’uomo con le fotografie, quando cominciò da bambino a pensare che “le mie foto, anche loro, sarebbero entrate di diritto in quelle scatole di latta o di cartone che contenevano i ricordi di famiglia”, e lo ha fatto così come pensava: “decidere di riempire la propria vita di fotografie è una scelta di responsabilità che coinvolge dubbio pensiero, impone ripensamenti e cautele della coscienza”.
Non so se chi mi legge e fa il fotografo si riconoscerà in questo profilo, ripeto, fiero ma anche malinconico del fotografo che forse c’era e non è più.
Credo che tutti si riconosceranno in questo suo ultimo rimpianto proiettivo: “Se mi chiedessero qual è il più grande rammarico direi: solo quello che non ho ancora visto, e quello che non riuscirò mai più a vedere nel tempo in cui non ci sarò”.
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