Un documento del Consiglio superiore della magistratura mette in discussione la rappresentazione che mass media, i due vicepremier e le autorità locali hanno dato di Sergio Bramini, l’ imprenditore brianzolo reso celebre dalla trasmissione televisiva «Le Iene» perché «fallito nonostante 4 milioni di euro mai pagati dallo Stato e sgomberato da casa».
Un imprenditore onesto e di successo rovinato dalle istituzioni, umiliato dai giudici e vessato dalle banche, costretto con moglie e figli a lasciare la casa in lacrime. La vicenda, raccontata in tv, con numerose e accorate dirette Facebook e in un libro («Il caso Bramini: un’ ingiustizia di Stato», Rubbettino), è paradigmatica di Paese in cui lo Stato non onora i suoi debiti con i cittadini.
Sostenuto da Lega e M5S in campagna elettorale, la sua villetta diventa meta di pellegrinaggio di parlamentari e ministri (Di Maio e Salvini in primis), ma anche di centinaia di persone solidali. Una sottoscrizione in suo favore raccoglie 150 mila euro. Dopo la formazione del governo gialloverde, Di Maio lo chiama come consulente al ministero a 46.800 l’ anno per studiare norme a tutela degli imprenditori come lui. I veri conti Ma dopo un anno di istruttoria il Csm la racconta diversamente, in un documento di 18 pagine «a tutela dell’ indipendenza e del prestigio» di Simone Romito, il giudice di Monza incaricato del pignoramento della casa di Bramini, inseguito dall’ inviato delle Iene per non «aver provato a dar retta alle ragioni di Sergio come nessun rappresentante dello Stato che lo ha rovinato».
Bramini è un imprenditore nel settore rifiuti: la Icom, società che ha fondato nel 1980, lavora per enti pubblici. Fatturato intorno a 3 milioni di euro, una dozzina di dipendenti. Racconta Bramini che dal 2005 cominciano a non pagarlo. Per mandare avanti l’ azienda, pagare le tasse e non lasciare gli operai senza stipendio, s’ indebita con le banche per 1 milione di euro e mette a garanzia anche la sua casa. Nel 2011, con 4,2 milioni di crediti da enti pubblici non riscossi, si arrende e porta i libri in tribunale. La banca aggredisce la casa e il giudice lo manda «in mezzo a una strada». La revocatoria Diversa la versione del Csm. I mutui bancari risalgono al 2001, prima del 2005: quindi non seguono il blocco dei pagamenti degli enti pubblici, ma lo precedono. Dopo il 2011, il curatore fallimentare avvia un’ azione di responsabilità contro Bramini «per gravi condotte di aggravamento del dissesto»: gli imputa di «essersi attribuito quale amministratore, nell’ ultimo periodo di vita della Icom, un compenso di 570 mila euro». La contestazione si chiude con una conciliazione: Bramini s’ impegna a restituire 200 mila euro (mai versati). Il curatore aziona anche una revocatoria perché Bramini «circa un mese prima del fallimento aveva ceduto alla moglie, in sede di separazione consensuale», la casa ora pignorata (dopo lo sloggio forzato i due abitano insieme in affitto, «per risparmiare»).
Anche i crediti vantati dalla Icom verso gli enti pubblici sono controversi. Secondo il tribunale fallimentare di Milano «non erano certi, liquidi ed esigibili, bensì tutti contestati e in buona parte insussistenti». In soldoni: tra cause perse e cessioni già effettuate, la Icom ha incassato solo 500 mila euro e nella migliore delle ipotesi vanterebbe circa 1,6 milioni di crediti, non 4,2 milioni. Denunce e interferenze Quello che tv e ministri mai hanno detto è che ben maggiori sono i debiti della Icom: 3,8 milioni di euro: 1,7 con il fisco; 1,1 con i fornitori, il resto con le banche. Dunque il principale creditore di Bramini (che non pagava Iva, Irpef, Irap, Tfr contributi previdenziali) è lo stesso Stato da lui additato come aguzzino. E per una cifra quasi doppia rispetto a quella, pur cospicua e ingiusta, che la Icom non ha mai incassato dalle pubbliche amministrazioni. Conclude il Csm: «È falso che la Icom sarebbe stata fatta fallire per le inadempienze di enti pubblici, che pure ci sono state e non si vuole trascurare».
Il Csm contesta inoltre che il giudice dell’ esecuzione immobiliare abbia avuto un atteggiamento persecutorio. Ha seguito leggi e procedure standard. E in attesa della vendita della casa non avrebbe sloggiato la famiglia Bramini, se avesse consentito ai potenziali acquirenti di visionarla. Bramini ha avuto «atteggiamenti ostruzionistici»: mandava diffide e intimazioni «di vario genere» ai funzionari pubblici e impediva le visite. In un’ intervista, Bramini ha definito la procedura di vendita «una porcata». Il custode giudiziario racconta di essere riuscito a concordare un solo appuntamento, perché Bramini lo accusava di «gravi reati».
Durante un accesso alla casa, lo ha «minacciato di morte prospettandogli l’ utilizzo di armi legalmente detenute», poi ritirate con il porto d’ armi dalla polizia. Bramini ha inoltre presentato denunce e querele contro il custode giudiziario, il giudice, il curatore fallimentare, gli ufficiali giudiziari («Vigliacchi», così erano accolti nella casa). Tutte archiviate.
Oltre alla «falsa rappresentazione mediatica» della vicenda, particolarmente «distorta, arbitraria e faziosa» da parte delle «Iene», il Csm attesta illegittime interferenze istituzionali. Dei parlamentari che avevano eletto domicilio nella casa di Bramini, invocando senza fondamento l’ inviolabilità costituzionale «e potenziando lo sdegno dell’ opinione pubblica». Del sindaco, che s’ intrometteva senza alcun titolo. Del prefetto, che pressava ripetutamente questore, giudice e presidente del tribunale affinché soprassedessero allo sloggio, paventando «imprecisate problematiche di ordine pubblico», invitando Bramini nel suo ufficio e rassicurandolo per telefono su decisioni che non spettavano a lui, infine proponendo al magistrato «un irrituale incontro a tre» per intavolare una trattativa.
Perciò il Csm, per la prima volta in cinque anni, vota una «pratica a tutela» di un magistrato: il giudice Romito di Monza «aggredito, denigrato, offeso, diffamato», stretto in una tenaglia politico-mediatica alimentata da una campagna costruita su fake news. «Persona perbene» «Bramini non è un furbo, ma una persona perbene», replica l’ avvocato Monica Pagano, che lo assiste e ha nel frattempo ottenuto dal tribunale la «procedura di sovraindebitamento» con cui spera che l’ immobile venga venduto a un prezzo congruo per poter chiedere poi di liberare Bramini da qualsiasi debito. L’ avvocato spiega che Bramini ha sempre negato «comportamenti ostruzionistici»; i crediti della Icom erano di almeno 4 milioni «ma anche se li vogliamo dimezzare a 2 milioni, comunque è una somma che se fosse stata pagata avrebbe evitato il fallimento»; i 570 mila euro di stipendio «si riferivano a sette annualità ed erano lordi». Dunque circa 80 mila euro all’ anno. L’ ultimo bilancio della Icom nel 2010, redatto dallo stesso Bramini e pubblicato da Altreconomia, recita: perdite operative per 1,2 milioni di euro, compenso dell’ amministratore 160 mila euro. L’ anno dopo è fallita.
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