Cambiamento climatico e pandemie sono le nuove minacce transnazionali di fronte alle quali diventa sempre più immediato e necessario promuovere una maggiore cooperazione internazionale. Eppure in un momento in cui l’unità dovrebbe essere la nuova normalità il mondo sembra essere diviso più che mai. Almeno diplomaticamente parlando. Dopo la pandemia, a causare un nuovo shock agli scambi commerciali c’è stata la guerra in Ucraina. Gli alti prezzi delle commodities e le difficoltà a livello logistico e di trasporto in seguito alle restrizioni dei lockdowns hanno messo in discussione la globalizzazione economica profetizzando la sua fine. Però così non è. Di certo ci stiamo allontanando da quella idea post-anni ’90 di un mondo iperglobalizzato inteso come percorso verso l’integrazione economica, politica, giuridica, culturale del globo. Per alcuni questo status quo può essere l’occasione per una “nuova” e “rinnovata” fase autarchica che ben si sposa con la renaissance di quel pensiero sovranista che sta attraversando in vari step il mondo. Una strada questa che nonostante la convinzione dei promotori appare di difficile realizzazione. Il rischio di un processo di de-globalizzazione sembra, anche vista la fortissima dipendenza economica dei Paesi tra loro, molto lontano. Chissà che questo momento non possa essere un’occasione, come tutte le crisi, per ripensare la globalizzazione, il ruolo dello Stato e in casa nostra il ruolo dell’Europa. Ne abbiamo parlato con Eugenio Capozzi, Professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa, nonché autore del testo Storia del mondo post occidentale. Cosa resta dell’età globale? edito da Rubbettino Editore.
Professore Morris Chang, che è il fondatore del principale produttore di semiconduttori di Taiwan (e del mondo) l’anno scorso durante una conferenza a Phoenix, in Arizona, ha dichiarato quanto segue: “la globalizzazione e il libero scambio sono quasi morti”. Professore, siamo davvero di fronte alla fine di un’era?
La globalizzazione e il libero scambio non sono morti, perché il groviglio di legami creati dallo sviluppo imponente dei commerci internazionali maturato dagli anni Ottanta si è tradotto in catene di approvvigionamento molto complesse che non sarebbe facile semplificare.
Ma a partire dalla seconda metà del decennio scorso – e in particolare dallo scoppio della “guerra dei dazi” tra Stati Uniti e Cina – è venuta maturando la consapevolezza della natura fondamentalmente conflittuale della globalizzazione post-1989, che è stata in effetti un riequilibrio di forze politico-economico tra Occidente e resto del mondo, a svantaggio del primo.
Quella consapevolezza, alimentata dal ritorno di vari conflitti geopolitici, ha messo in moto una spinta neo-protezionistica nel senso del decoupling delle catene e di un’aspirazione al reshoring di produzione e investimenti che non è facile attuare, ma certamente ha irrigidito i mercati, li ha “politicizzati” più di quanto già non fossero a chi guardasse bene.
La crisi legata al dopo-pandemia, la riconversione energetica occidentale e la guerra russo-ucraina hanno poi ulteriormente accentuato questa tendenza, con l’accaparramento di materie prime e la corsa alla diversificazione dei fornitori energetici.
Quando parliamo di globalizzazione facciamo riferimento alla stessa cosa a cui ci riferivano nel XX secolo? Sembra che nel secolo precedente con globalizzazione si facesse riferimento più ad un fenomeno economico. Nel 2000 invece appare una parola d’ordine politica (sia per i sostenitori che per i critici). E’ un’analisi corretta?
Senza dubbio nel corso degli ultimi 25-30 anni è cambiato il significato che analisti, media e politici hanno attribuito al fenomeno. Fino alla fine degli anni Novanta sia i sostenitori che gli oppositori della globalizzazione la interpretavano come un crescente strapotere del modello di economia di mercato occidentale e delle multinazionali americane. Successivamente, soprattutto dopo l’ingresso della Cina nel Wto, si è diffusa in misura crescente l’idea che all’interno di essa il fatto più rilevante fosse la crescita delle economie asiatiche e più in generale non occidentali, e che questo fatto avesse una valenza politica, contribuendo a creare un multipolarismo mondiale fatto di potenze regionali.
Da qui anche il singolare rovesciamento delle posizioni politiche rispetto alla globalizzazione nelle democrazie occidentali: i progressisti da “no global” sono diventati globalisti abbracciando una visione prescrittiva della globalizzazione come integrazione giuridico-istituzionale e multiculturalismo; la destra ha in larga parte abbandonato l’ottimismo “reaganiano” filo-globalista per diventare protezionista e/o sovranista, in nome della difesa dei popoli da poteri transnazionali incontrollabili e dall’immigrazione sregolata.
La rivalità in atto tra Cina e Usa incide sul fenomeno della globalizzazione? Si parla di una quota cinese delle importazioni americane scesa dal 21% al 17% tra il 2018 e il 2022, invece le importazioni statunitensi da Vietnam, Bangladesh e Thailandia sono aumentate di oltre l’80%. Quindi la concorrenza geopolitica può ridurre la globalizzazione economica, ma credo sia complesso ridurre la necessità di una globalizzazione ecologica, ad esempio. Nessun paese può risolvere i problemi ambientali e di salute pubblica da solo. Un virus che parte dalla Cina o dei gas serra emessi in India possono innalzare il livello del mare in Europa, in America e viceversa. Questa considerazione ci dice ancora più che forse una globalizzazione è auspicabile, una globalizzazione diversa da come l’abbiamo immaginata fino ad ora.
L’idea che la crescente interdipendenza a livello planetario richiedesse sedi decisionali e politiche della stessa estensione é da decenni alla base di quella singolare convergenza tra i governi dei paesi più industrializzati e soggetti privati chiamata governance, nata dalla consapevolezza diffusa dell’insufficienza delle istituzioni internazionali così come si erano configurate nel secondo Novecento. Ma si trattava di una soluzione informale e precaria, che si è rivelata assolutamente al di sotto delle sfide che intendeva affrontare. Anche e soprattutto perché nel frattempo è emerso chiaramente come i paesi più industrializzati non condividessero affatto la stessa visione del mondo, perché il mondo non era diventato unipolare ma multipolare.
In quanto al livello globale delle politiche ambientali o sanitarie, credo che l’insistenza con cui quei temi (in particolare il cosiddetto cambiamento climatico e le infezioni para-influenzali come il Covid 19) sono stati dipinti come “emergenze” sia dovuto in gran parte ai tentativi delle classi politiche occidentali, in crisi radicale di legittimazione, di sfruttare paure “millenaristiche” collettive per costruire, sulle macerie di democrazie post-ideologiche e post-partitiche sottoposte a tensioni sempre più radicali, un sistema di potere dirigista, tecnocratico e “pedagogico” fondato su una sorveglianza capillare, in accordo con le grandi corporation oligopoliste hi tech: una sorta di deriva “cinese” dell’Occidente. Ma proprio questa deriva accentratrice (evidente tanto nell’irrazionalità dell’emergenzialismo “pandemico” quanto in quella dei diktat di “de-carbonizzazione”) dimostra che la presunta “comunità internazionale” non esiste, e che esistono invece differenti poli di civiltà e di potenza all’interno dei quali è in corso una progressiva “militarizzazione” delle società.
Più che la fine della globalizzazione sembra che sia arrivata la fine di un’era quale quella neo-liberale e dell’austerità. Il ritorno all’interventismo dello stato, l’unificazione di Cina, Russia e Iran in chiave antioccidentale e la crescita di paesi come India e Turchia ci mettono di fronte ad un mondo duale e bipolare. Cosa può rappresentare questo stato di cose per la globalizzazione?
La tendenza dirigista e tecnocratica in atto in Occidente implica un sostanziale ingabbiamento dell’economia di mercato all’interno di un sistema verticale fondato su bonus, sussidi, incentivi per indirizzare produzione, investimenti, consumi nelle direzioni indicate dai governi, e propagandate per la loro valenza “etica”. E implica una pressione crescente, fiscale e normativa, sulla proprietà privata. Le classi politiche occidentali non erano sinceramente liberiste nemmeno prima (in particolare quelle europee), ma tra anni Ottanta e Novanta in gran parte ritenevano che il diffondersi su scala globale dell’economia di mercato avrebbe avuto come necessaria conseguenza il propagarsi della democrazia liberale. Ma i decenni successivi hanno dimostrato, a partire proprio da Russia e Cina, che il mercato può coesistere, con risultati ragguardevoli in termini di incremento della ricchezza, con sistemi dittatoriali, autoritari e dirigisti. Da qui la crescente tentazione di prendere, in una certa misura, a modello quei sistemi, condivisa anche dalle big tech. Tentazione acuita dal fatto che le classi politiche occidentali si sono trovate a gestire economie via via più stagnanti, rese ancor più asfittiche poi dalla grande crisi del 2008. Da allora prima la “rianimazione” dell’economia attraverso il quantitative easing e poi il suo “raffreddamento” quando si è risvegliata l’inflazione hanno consolidato la presa di governi e “super-governi” come l’Ue sul mercato.
In ultimo professore cosa ha rappresentato l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia in questo quadro di analisi sul fenomeno della globalizzazione?
Ha rappresentato nell’area occidentale corrispondente a Nato e G7 l’occasione per un passo ulteriore in direzione di governi stabilmente tecnocratici ed emergenziali, e del dirigismo economico, ottenuto anche attraverso un incremento sostanziale delle spese militari e il forzato sganciamento energetico dalla Russia, con conseguente accelerazione della marcia a tappe forzate verso la cosiddetta riconversione energetica.
Su scala più ampia, ha rappresentato la sanzione definitiva del fatto che la globalizzazione intesa come percorso verso l’integrazione economica, politica, giuridica, culturale del mondo è finita, o forse non è mai davvero cominciata, e che il mondo globalizzato è più diviso e conflittuale, secondo i confini dello “scontro di civiltà” di cui parlò Samuel Huntington.
Il conflitto russo-ucraino è precisamente una “guerra di faglia” al confine tra due civiltà (quella euro-occidentale e quella russo-ortodossa) come quelle descritte dal politologo statunitense trent’anni fa.