«Un mare calmo non ha mai fatto un buon marinaio». Se diamo credito a questa frase di Roosevelt, si può dire che una buona leadership si forma ma soprattutto si vede durante una tempesta. E dalle prime mosse nel mare della pandemia si capirà certo presto se il nocchiero Joe Biden, che giura oggi come 46° presidente degli Stati Uniti, riuscirà a condurre la democrazia a stelle e strisce in porto e a salvare così il sogno americano. Ma non c’è solo il Covid-19 a giocare un ruolo cruciale nella ricostruzione da compiere: la tregua tra i partiti dopo gli anni di Trump, la buona informazione dopo l’ondata delle fake news, la rinascita dei diritti dopo la violenza razziale sono alcuni degli altri temi dell’agenda del nuovo inquilino della Casa Bianca.
L’agile saggio di Matteo Laruffa, in libreria in questi giorni con la casa editrice Rubbettino, prova a spiegare tutto questo e racconta parte della “pesante eredità” che Biden raccoglie dal suo predecessore. Nato a Catania e cresciuto in Calabria, a Polistena, Matteo Laruffa, 31 anni, ha conseguito il dottorato in Politics alla Luiss. Da diversi anni coltiva intensi legami con gli Stati Uniti, tanto che dopo i primi viaggi a Washington è stato visiting fellow del Dipartimento di governo dell’Università di Harvard. Ha insegnato all’Istituto John F. Kennedy della Freie Universität di Berlino e ha presentato le sue ricerche in molti paesi europei oltre che negli Stati Uniti.
A cosa deve principalmente il suo successo Biden? «Il suo successo è dovuto alla lunga esperienza e al fatto che i democratici sapevano che gli altri candidati non avrebbero avuto chance contro Trump. A questi fattori si aggiunge la fortuna. Biden non avrebbe vinto se Trump non avesse dimostrato tanto “negazionismo” sul virus. C’è una teoria che dice che un presidente in carica non perde quando c’è una guerra in corso e se l’economia va bene. La pandemia è una sorta di guerra e l’economia americana andava bene. Se Trump avesse detto agli americani la verità sulla pandemia, avrebbe sicuramente vinto. Il suo negazionismo ha fatto male agli Usa e alla sua campagna elettorale».
Nel tuo libro elenchi una serie di “cattivi precedenti” di cui l’amministrazione Trump si è resa protagonista. Quali sono, a tuo avviso, i più gravi?
«Arrivati al 6 gennaio, il “mercoledì nero” di Washington, con il presidente in carica che incita il suo popolo alla “marcia”, i cattivi precedenti sono diventati davvero tanti. I peggiori sono la telefonata alle autorità della Georgia in cui il presidente pretendeva che venissero trovati “abbastanza voti” per sovvertire il risultato elettorale e l’aver incitato all’insurrezione contro il Campidoglio. C’è poi l’equilibrio interno alla Corte Suprema che è stato alterato dalle ultime tre nomine. Oggi la maggioranza dei giudici è composta da conservatori e questo potrebbe causare uno scontro con la Casa Bianca e il Congresso sui temi che tradizionalmente dividono i partiti. Un’altra nota dolente è il rapporto con l’intelligence, che l’ex presidente ha tentato di trasformare quasi in uno strumento politico al suo servizio. Trump e i suoi, inoltre, hanno lottato per uno sdoppiamento dell’informazione (da un lato quella fondata sui fatti, dall’altro quella manipolata), ma i media hanno reagito e continueranno a controllare la politica di Washington come fanno dai tempi del Watergate».
Perché nelle elezioni del 2020 le fake news sembrano avere avuto un ruolo meno preponderante rispetto a quelle del 2016?
«Nel 2016 il risultato elettorale è stato senza dubbio condizionato dalla manipolazione dilagante sui social network. Per questo motivo i social, accusati di essere la culla della disinformazione, hanno cambiato algoritmi e regole: prima c’è stato un sistema di prevenzione delle fake news sulla pandemia e poi lo stesso è avvenuto nella campagna elettorale».
Il 2020 è stato segnato dall’omicidio di George Floyd, quanto pesa ancora il problema razziale negli Stati Uniti?
«Il problema delle discriminazioni è grave e da sempre presente in America. I dati che cito nel libro dicono che non può esserci pace sociale senza eguaglianza e, nonostante l’impegno di figure come Martin Luther King Jr., ancora oggi le minoranze non hanno gli stessi diritti dei bianchi. Dopo il primo mandato di Obama la situazione è peggiorata. Una parte dell’establishment che crede nel “privilegio bianco” ha ridotto i diritti degli afroamericani anche per reagire al successo del primo presidente di colore della storia».
Anche se Trump è stato sconfitto alle urne, il trumpismo resterà?
«Il trumpismo c’è, c’era prima di Trump (seppur con altri nomi) e ci sarà dopo Trump. Il tycoon ha incarnato ed elevato a livello nazionale le spinte violente della politica. La retorica e la violenza dei suoi sostenitori resterà una componente dei prossimi anni indipendentemente dalla sua sorte personale. I repubblicani devono capire come controllare il trumpismo ma non possono neanche estromettere questa componente dal loro panorama politico dato che è essenziale per evitare di perdere ulteriormente voti. Certamente, però, a differenza di molti movimenti populisti, quello Repubblicano non è un partito estemporaneo, non è nato dalla crisi del 2008, ha una storia piena di valori politici e una squadra di riserva su cui contare».
In che modo ritieni che Biden sia la persona giusta per “traghettare” l’America?
«I democratici hanno in mano un Paese travolto da molteplici crisi e cercano i leader della prossima generazione dopo Biden. Ma intanto Biden conosce le istituzioni, e la sua forza sta nel suo appello a coloro i quali possono dare il meglio contro la pandemia e la recessione. Trump ha distrutto il sistema americano (dentro e fuori i suoi confini), ma non ha proposto nulla e lascia un vuoto. Biden potrà ricostruire sulle macerie del sogno americano».
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