L’antropologo Piercarlo Grimaldi rilegge in chiave introspettiva i capolavori dell’autore piemontese: «Lessi “La luna e i falò”, e nulla fu più come prima»
Quasi cinquant’anni di studi per 170 pagine che indagano le ragioni che portarono Cesare Pavese a decidere di interrompere la propria vita in quello che l’antropologo Piercarlo Grimaldi definisce un «Non luogo, in un non giorno», un anonimo albergo in zona Porta Nuova, in un torrido 27 agosto 1950.
Di lune e di falò — Cesare Pavese antropologia del romanzo d’addio, pubblicato da Rubbettino, arriva in libreria nell’anniversario della morte del grande autore di Santo Stefano Belbo. «Sono nato a Cossano Belbo, a pochi passi dalla casa natale dello scrittore, ma ho conosciuto la sua poetica tardi. Nei nostri paesi si parlava poco di lui, se ne vagheggiava, ma era più un pettegolezzo su una figura da esorcizzare in una Langa della miseria in cui i suicidi erano all’ordine del giorno», racconta Grimaldi, già rettore dell’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo.
Un libro che l’autore ribadisce di aver «covato» per quasi mezzo secolo: «Entrai tardi in contatto con la poetica pavesiana perché, dopo aver frequentato le elementari, dovetti lasciare gli studi per lavorare nella sartoria di famiglia. Ci lavorai fino ai 28 anni, quando dopo la morte di mio padre decisi di chiudere bottega e dedicarmi a tempo pieno allo studio: posso dire di aver smesso di cucire vestiti per iniziare a cucire parole».
L’incontro con Cesare Pavese avviene come una folgorazione grazie a Cesare Brandone: «Uno di quei grandi personaggi di Langa, di professione ragioniere e per passione fine poeta e intellettuale. Un giorno qualsiasi di quasi 50 anni fa mi invitò a leggere La luna e i falò e nulla è più stato come prima. Con Pavese avevo incontrato un autore che scriveva dei luoghi in cui vivevo ogni giorno, dei personaggi che conoscevo, dei sentimenti che io stesso provavo calpestando la sua stessa terra».
Inizia così un lungo lavoro di ricerca attraverso quasi cinque decenni, corredato da decine di interviste ai personaggi che avevano conosciuto Cesare Pavese, a partire da «Nuto» Pinolo Scaglione. «Falegname, con il suo clarino scandiva le feste della Valle Belbo. Nuto fu la persona che più di tutte conobbe l’anima del grande scrittore e che più di tutte narrò e fece conoscere a Pavese il mondo contadino, nelle lunghe giornate passate sotto il glicine della propria abitazione». Insegnamenti che lo scrittore farà propri, tanto da capire il mondo rurale come pochi altri scrivendo frasi come: «Essere contadino vuole dire vestire la terra ed è per questo che il contadino non va mai nudo nei campi».
Il risultato di mezzo secolo di ricerche si traduce così in un libro che indaga l’anima dello scrittore attraverso il suo romanzo testamento La luna e i falò, per molti versi autobiografico, in cui Pavese è Anguilla, il personaggio che dopo tanto peregrinare torna al paese per ritrovare se stesso. Un percorso che non riuscirà appieno: «Quando Anguilla, dopo essere stato a Genova e negli Stati Uniti, torna nel suo paese non lo trova più, perché Anguilla non ha famiglia, non è parte di una comunità e chi non ha la memoria di una famiglia non ha la possibilità di riconoscersi in un luogo. Pavese a fine anni Quaranta scrive di sentimenti ancora attuali oggi per chi cerca la propria dimensione senza trovarla».
La conclusione a cui arriva Grimaldi spiegherebbe molto delle ragioni che spinsero Pavese all’estremo gesto: «Anguilla-Cesare scopre che avere un paese è il tratto fondamentale per sopravvivere, per essere parte della memoria del territorio, per questo esprime il concetto di farsi terra, morire per sentirsi parte di qualcosa di più grande. Non è un caso che scelga un “non luogo”, un albergo come tanti, in un giorno come tanti, spaventato dall’oblio. Un oblio che per fortuna mai arriverà, perché ancora oggi Pavese è uno degli autori più vivi e attuali che esistano. E voglio pensare che ci guardi tutti da quel santuario di Madonna della Rovere di Cossano Belbo, “il santuario delle cose nascoste e lontane che devono esistere”, in cui l’ateo Pavese riusciva a sentire l’infinito».