Il saggio di Damiano Garofalo, docente e ricercatore, indaga sull’impatto che a partire dal ’46 il cinema italiano ha avuto nell’ambito culturale statunitense, fino ad oggi. Rubbettino
Nel 1952 in Francia viene pubblicata un’opera teatrale di Orson Welles (mai tradotta in inglese) dal titolo Miracolo a Hollywood. Questa breve commedia ambientata a Hollywood segue le vicissitudini di un regista neorealista italiano che sceglie di licenziare la diva scelta per la parte da protagonista, per poi affidare il ruolo a una dattilografa degli Studios nei quali si sta girando il film. La commedia di Welles è un affresco lucido di quel momento di trasformazione a Hollywood. Sono passati pochi anni dal 1946, quando Roma città aperta di Rossellini veniva proiettato in una piccola sala d’essai a New York. Quello è stato il punto di non ritorno per il nostro cinema, che nei decenni a seguire avrebbe colmato il mercato statunitense con titoli di autori oggi riconosciuti universalmente. Ma qual è stata la percezione del pubblico e della critica in quegli anni? Come è cambiato il mercato da allora? E oggi, quale valenza ha la provenienza italiana di un film che arriva ad impattare anche l’immaginario americano?
“L’idea che avevo inizialmente era quella di concentrarmi sulle modalità di articolazione di uno specifico immaginario dell’Italia attraverso il cinema… Mi sono chiesto se non fosse proprio il modo in cui all’estero è stato storicamente recepito il cinema italiano a definirne dei veri e propri caratteri di riconoscibilità, distinzione, stereotipia”. È questa la domanda da cui è partito Damiano Garofalo, per il suo saggio C’era una volta in America. Storia del cinema italiano negli Stati Uniti, 1946 – 2000. Il libro indaga sull’impatto che dal ’46 il cinema italiano ha avuto nell’ambito culturale statunitense, proprio a partire dal connubio tra sguardo produttivo, distributivo, culturale e storiografico. Superato il punto di partenza rosselliniano, Garofalo, docente di Storia del cinema e Storia della televisione alla Sapienza, prosegue nel raccontare la trasformazione dello sguardo “nostrano” attraverso l’affermarsi di nomi d’autore poi divenuti culto: Antonioni, Fellini, Visconti, Pasolini. La ricerca di C’era una volta in America passa per il raffronto che la società statunitense e la trade press (Variety, The Hollywood Reporter; ma anche stampa non di settore: The Newyorker, Life, Time e altre) ebbero nei riguardi del neorealismo e poi del cinema d’autore.
Ma in America la modellazione culturale passa (maggiormente) attraverso l’industria, per arrivare solo in seguito ai modelli sociali e fenomeni di costume. Ecco quindi che l’autore di C’era una volta in America. Storia del cinema italiano negli Stati Uniti,1946 – 2000 si confronta e intervista distributori, produttori e operatori culturali statunitensi per cogliere meglio questo sistema produttivo. Attraverso il quale si segue una ricerca anche distributiva del cinema italiano negli Stati Uniti. Infatti, come puntualizza Damiano Garofalo, l’impressione che l’America ebbe (fino a poco fa) del nostro cinema era associata categoricamente al cinema d’autore. Solo negli ultimi anni si sta vivendo a una “normalizzazione” del cinema italiano in quanto, anche, cinema popolare, mainstream.
C’era una volta in America. Storia del cinema italiano negli Stati Uniti, 1946 – 2000
di Damiano Garofalo246 pagine
Rubbettino Editore