Chiediamoci perché il “partito del liberalismo” (uso di proposito questa locuzione per astrarre da ogni riferimento storico esplicito o implicito) sia asfittico in Italia. La prima risposta dovrebbe trovare tutti, liberali e no, d’accordo: ne mancano le basi culturali. Il che significa troppe cose. Impossibile riassumerle qui. Tuttavia, possiamo darne l’idea parafrasando le parole del grande giudice della Corte suprema degli Stati Uniti, Antonin Scalia: “In un sistema universitario, in cui si promuove più una filosofia collettivista che capitalista, solo uno sciocco potrebbe pensare di trovare un florido partito del liberalismo” (Antonin Scalia, “Affari economici come affari umani. I giudici e la libertà economica”, Ibl Occasional Paper, numero 114, 2021).
La seconda risposta concerne la posizione stessa del “partito del liberalismo”, dichiarata o percepita, da liberali e no, rispetto ai partiti per come questi siano valutabili o per il nome o per le politiche o per auto-qualificazione. A riguardo non esiste migliore spiegazione del “diagramma di Hayek”, che conviene citare dal classico “La società libera”, un titolo che in italiano non rende la profondità dell’originale inglese “The Constitution of Liberty” (di recente ritradotto e introdotto da Lorenzo Infantino per l’editore Rubbettino). Scrive Hayek: “Il quadro che, generalmente, si fa delle relative posizioni dei tre partiti serve più ad offuscarne che a chiarirne i veri rapporti. In genere sono rappresentate come posizioni diverse su una linea in cui i socialisti sono a sinistra, i conservatori a destra, ed i liberali in qualche punto al centro. Niente potrebbe essere più ingannevole. Se vogliamo un diagramma, sarebbe più appropriato disporli in triangolo, mettendo i conservatori in un angolo, con i socialisti che tirano verso il secondo angolo ed i liberali verso il terzo. Ma poiché i socialisti sono riusciti, per molto tempo, a tirare più forte, i conservatoti hanno avuto la tendenza a seguire la direzione socialista piuttosto che quella liberale e, a tempo debito, hanno adottato le idee rese rispettabili dalla propaganda estrema. Sono stati sempre i conservatori a scendere a compromessi col socialismo e a rubarne le novità. I fautori della via di mezzo, privi di un loro obiettivo, sono stati guidati dalla convinzione che la verità sia fra i due estremi, con il risultato che ogniqualvolta un movimento appariva più estremo, spostavano la loro posizione… Mentre il conservatore offre semplicemente una versione moderata dei pregiudizi del suo tempo, il liberale oggi deve opporsi in modo più risolutivo ad alcune delle idee fondamentali, condivise in gran parte da conservatori e socialisti”.
La terza risposta ha a che vedere con la logica conseguenza delle prime due. In Italia l’asocialità viene scambiata per individualismo, una confusione sbagliata non solo di per sé ma anche perché fa riferimento all’individualismo “cattivo” che non confida sugli sforzi individuali autonomi ma, per sedimentata abalietà, si affida alle interferenze manipolatorie della pretesa giustizia sociale, perseguita dai partiti e decretata dal governo, indifferentemente. In proposito, Luigi Einaudi ebbe a dire che “il liberalismo è l’anarchia degli spiriti sotto la sovranità della legge” e Thomas Jefferson che “il governo migliore è quello che governa meno”. Si parva licet… aggiungeremmo che, per chiarire anche agli adolescenti che cosa debba intendersi per “governo della legge”, sotto il quale soltanto fiorisce l’individualismo “buono”, cioè l’indipendenza e la responsabilità personale dell’individuo, dovremmo indicare come esempio il codice della strada, che non impone a nessuno le destinazioni o i tragitti o gli scopi del viaggio ma, indifferente alle une e agli altri, semplicemente pone agli utenti i divieti indispensabili alla circolazione di tutti. Così l’ordine legale procura diretti vantaggi specifici ai viaggianti e indiretti benefici generali all’intera società. Vantaggi e benefici indipendenti dalle intenzioni di chi viaggia e dalla volontà del codificatore.
La quarta risposta, qui conclusiva, comporta pertanto che il “partito del liberalismo”, per diventare nelle condizioni date quello che è prescindendone, dovrebbe pretendere dei “Sì” e pronunciare dei “No”, che né pretende né pronuncia per diverse cause profonde e per questione di voti, temendo di perderne piuttosto che di acquistarne. A torto, secondo noi. Ovviamente è anche un problema di leadership, la quale suole incarnarsi alla cieca tanto nei giovani quanto nei vecchi, ma agisce sempre nel modo che spiegava l’indimenticato (?) Panfilo Gentile: “Un capo è colui che non sacrifica le proprie opinioni al successo, ma impone il successo alle proprie opinioni”.
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