Da Galatea di dicembre
In qualsiasi repertorio ricorrono quelle che Giuseppe Ghigi, nel suo libro ricchissimo(Le ceneri del passato. Il cinema racconta la Grande Guerra, Rubbettino, pp. 261, € 16), definisce ‘figure’: «strutture tematiche organizzate attorno alla similarità che servono a riconoscere per analogia ciò che accade». Il repertorio della Grande Guerra non fa eccezione. È come se il “ritorno del rimosso” antropologico che, a fronte dello scatenarsi della più micidiale tecnologia moderna, tanti soldati spinse a recuperare pensiero mitico e pratiche esoteriche (con un cortocircuito che fu il dimenticato antropologo Cesare Caravaglios a illustrare per primo, nel 1935, nell’Anima religiosa della guerra) abbia favorito altresì, in chi abbia tentato di dare un senso- gesto connaturato a qualsiasi narrazione- a quella tempesta d’insensatezza, la concrezione di parabole, miti e ‘figure’, appunto, che ricorrono con inquietante persistenza. La più inquietante è sulla copertina del libro di Ghigi: il corpo di un caduto trasportato a spalle da commilitoni che, sotto divise e berretti, si rivelano scheletri. È un fotogramma del primo capolavoro del repertorio, Per la patria (J’accuse), che Abel Gance realizzò in due differenti versioni – nel 1919 e nel 1938.
La crudele frase evangelica «lascia che i morti seppelliscano i loro morti», trova così, nel mito dei caduti che ritornano, un’interpretazione tragicamente letterale. È solo una delle ‘figure’ attorno alla cui analisi si organizza – senza riguardo per la cronologia, la provenienza e neppure l’autorialità dei film – la formidabile trattazione di Ghigi (alla cui consultazione avrebbe giovato un indice delle opere o almeno dei nomi), e non c’è qui lo spazio per neppure sintetizzarla. Basti dire che, sia per la mera quantità di pellicole (anche rarissime) che per l’acutezza della loro lettura, è da considerarsi questa, ora (dopo contributi importanti di studiosi come Brunetta e Alonge) l’opera di riferimento sul tema.
Ma la medesima figura, a ben vedere, appare anche nel capitolo che si pone all’altro capo della lunga linea rossa iniziata da Abel Gance: Torneranno i prati di Ermanno Olmi. Un film nato sulla commissione, per il centenario, ma che ha incontrato la sua ispirazione (i racconti della Grande Guerra di suo padre lo avevano già abitato, nel ’69, coi Recuperanti e, magari, anche nel capolavoro Il mestiere delle armi, dedicato nel 2001 alle guerre di ventura del Cinquecento). S’è già parlato della splendida (persino estetizzante) fotografia di suo figlio Fabio (che dipinge i paesaggi in colori illimpiditi sino alla desaturazione, a un quasi-bianco e nero che esalta le nevi sull’Altopiano dei Sette Comuni), della musica dolente di Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura sull’orlo del silenzio (quello cui il frastuono delle bombe, alla fine, riduce la voce liquida del soldato napoletano che all’inizio faceva echeggiare le montagne con Tu ca nun chiagne), dell’interpretazione vibrante dei giovani attori (eccellente quella del ‘tenentino’ Alessandro Sperduti), toccante nel rivolgersi in camera in primissimo piano, leggendo le lettere lancinanti scritte dal fronte. Può lasciare perplessi lo sviluppo essenziale sino all’esilità (il nucleo narrativo, tolto alla Paura di Federico De Roberto, perde non poco coll’ordine omicida ripetuto solo due volte: laddove è proprio l’assurdo dell’iterazione ossessiva, nel racconto, a mettere i brividi), ma è funzionale a ridurre la rappresentazione a due ambienti contrapposti: la bellezza dell’ambiente esterno e l’oppressività malsana, febbrile, del ricovero sotto la neve. Nell’ultima scena una parte dei soldati si incammina nell’oceano di neve, dopo che anche l’ottusità dei comandi s’è resa conto che la posizione è indifendibile; gli altri si dedicano all’ufficio pietoso di dare sepoltura ai compagni morti. Ma sono morti loro stessi: dall’inizio alla fine del film rappresentati sotto il livello del terreno, in attesa della granata o della mina che spunterà dalle viscere della terra. Le prime parole sono appunto «siamo sepolti» (sotto la neve, certo). Col suo verismo viscerale, Olmi s’è fatto un partito preso di raccontare solo episodi realmente accaduti e mettere in scena solo oggetti ‘veri’, reali cimeli d’epoca. Anche gli attori in carne e ossa, allora, si muovono come spettri. Quando dicono «torneranno i prati», aggiungono: «e nessuno si ricorderà di ciò che è accaduto».
di Andrea Cortelessa
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