Oggi Casignana è un paese ovattato che sconfina timidamente sullo Ionio. Un tempo non era così docile e silente. Qui, quasi un secolo fa, il socialismo più audace sfidò l’asfissiante potere dello squadrismo agrario. Di questo paesino della Locride, che supera appena i 700 abitanti e che conserva gelosamente sventrate casupole in pietra, scrisse Mario La Cava, scrittore calabrese del ‘900 nato e vissuto a Bovalino, che di ritorno da Roma e Siena, dove compì gli studi, realizzò che “non è necessario lasciare la propria terra per affermare il valore della propria creatività. In fondo chi decide di viaggiare, il mondo può solo guardarlo, mentre chi mette radici può capire di più il significato della realtà che lo circonda, può interpretarlo. Sono le idee che devono viaggiare, più delle gambe degli uomini”. E la sua analisi di una realtà crudele che si compiva quando lui era appena adolescente, finì nelle pagine di un libro, edito per la prima volta nel 1974, necessario per capire la storia calabrese del Novecento e che oggi viene ripubblicato da Rubbettino con la prefazione di Goffredo Fofi. “I fatti di Casignana” sono la cronaca, priva di alcuna retorica populista senza però rinunciare al tono poetico, di una delle più atroci lotte contadine che si sono consumate nel Mezzogiorno italiano a partire dal primo dopoguerra. Incontro un signore, in piazza Municipio, seduto vicino al suo motocarro. Ha 90 anni, all’epoca neanche era nato. Gli chiedo dei fatti del ’22. Mi risponde a monosillabi, con sguardo burbero, come si sentisse ingiustamente messo all’indice, forse stanco di quella ingiuriosa e a suo dire menzognera nomea che da decenni oscura il profilo della sua Casignana: «fu colpa dei contadini, stuzzicarono i carabinieri e questi, per difendersi, iniziarono a sparare». Dalla prontezza del tono aspro e inflessibile, capisco che nonostante ci siano prove schiaccianti e testimonianze dirette di un premeditato delitto perpetrato 96 anni fa da fascisti e agrari locali coadiuvati dai carabinieri, quindi dallo Stato, oggi si continua imperterriti a cancellare le tracce di un passato ignobile, a calare ombre su quell’oppressivo potere politico-economico ormai fatiscente. Giusto per intenderci, quei contadini, a cui La Cava sembra essere legato da empatica malinconia, erano anime “gogoliane”, affamate, tornate mezze morte dalle trincee della Grande Guerra. Si aspettavano un riconoscimento, seppur minimo, si aspettavano la terra da coltivare per vivere in santa pace. I carabinieri in questione erano tanti, tantissimi, armi in pugno; i contadini, invece, muniti di bastoni e pietre, ma solo per eventuale difesa, senza aver mai azzardato mosse provocatrici. Andò che furono sparati oltre 101 colpi. Inutile dire che fu una carneficina. 3 morti, 6 feriti gravissimi, 80 meno gravi.
Per il capriccioso possesso di un pezzo di terra per lo più sterile e incoltivabile? No: dietro, si sa, c’è molto di più. Ciò che accadde a Casignana in quei torbidi anni ’20 fu il tentativo (riuscitissimo) di affermare gli antichi privilegi del latifondo e della borghesia agraria che speculavano sugli affitti delle terre, ma soprattutto, e qui sta l’eccezionalità dell’episodio, di instillare il seme del fascismo, abbattendo lo strenuo ma rachitico socialismo che resisteva in quella fetta incantata di paesaggio ionico: i contadini e le lotte per la terra furono solo un mezzo per realizzare disegni politici da inquadrarsi nel più ampio piano repressivo nazionale. Così, ancora una volta, e come accadrà ripetutamente in seguito, i braccianti del Sud furono le sciagurate prede di uno sfruttamento becero. Dalla loro parte furono in pochissimi. La figura più affascinante, ritratta liricamente da Mario la Cava nel personaggio di Filippo Zanco, è Francesco Ceravolo, un medico probo dal temperamento idealista che sosteneva l’urgenza di un socialismo universale, da raggiungere attraverso una sincera fratellanza e l’abbattimento delle prepotenze dei ricchi. Ci stava provando, intanto diventando sindaco del paese. Ma poi ci fu la strage. Immotivata. E oltre ai morti e ai feriti, i parenti delle vittime dovettero accettare, sventurati com’erano e senza alcuna possibilità di emigrare, di vivere in un paesino di meno di mille abitanti fianco a fianco coi carnefici dei loro mariti, fratelli, padri. E dovettero tollerare, insieme al popolo schiacciato, la disonesta accozzaglia da cui gli toccò essere governati, senza nessuna rappresentanza incorruttibile in Municipio. Ceravolo fu costretto ad abbandonare i suoi sogni di uguaglianza sociale. Chiuse per sempre con la politica, quella integra, pura e onesta che sin da giovane l’appassionò. Visse il resto della sua vita a Bovalino. Non tornò più a Casignana, dove nella coscienza di pochi riecheggiò quella frase, «che male ti feci e mi spari?», che il medico rivolse ingenuamente a chi stava per ridurlo a quarta vittima dell’eccidio a cui si interessò anche Mussolini, mandando Bottai a Casignana per un’inchiesta. Molti anni dopo, Ceravolo si tolse la vita. Forse lo uccise il rimpianto di non aver fatto abbastanza per la rivoluzione socialista, insieme al rimorso, ingiustificato, di aver vanificato le speranze del suo popolo. O forse no. Ciò che è certo è che Casignana perse una figura sinceramente votata al bene, finita sotto il tallone di ferro di un sistema vizioso, e piombò nelle tenebre soffocanti e reazionarie del fascismo. E per un ventennio ha dovuto fare silenzio.
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