Mario La Cava, Fortunato Seminara
Mi batterò come un leoneCarteggio 1936-1981
a cura di Erik Pesenti Rossi
“I dolori del giovane…” (s) Fortunato, ovvero le tormentate confessioni epistolari d’un calabrese troppo ostinato ed esuberante.
Primi scambi d’opinione tra scrittori in erba – Carteggio Seminara/La Cava (1936-1981) – a cura di Erik Pesenti Rossi
(“Mi batterò come un leone”, Rubbettino, Soveria Mannelli 2022)
Fu con interesse che un trentatreenne Fortunato Seminara lesse il saggio di Mario La Cava su Franz Kafka, pur non avendo apprezzato uno degli ultimi racconti di quest’ultimo, in traduzione francese, l’incompiuto e postumo “La tana” (in originale: Der Bau, appartenente, assieme a La metamorfosi, Indagini di un cane, Josephine la cantante, o Il popolo dei topi, alle cosiddette “storie di animali”), narrato in prima persona e considerato tra i più autobiografici dell’autore boemo. Eppure quel tema ossessivo della sicurezza, a protezione da tutto e da tutti, auto-recludendosi in un blindato ricovero desiderato inespugnabile, gli sarebbe dovuto essere quanto meno confacente, visto che anche lui ne mise continuamente in pratica il tentativo di “costruirselo” attorno (Der Bau, in tedesco, significa appunto ‘costruzione’) per buona parte della vita eremitica trascorsa a Pescano, senza per altro riuscire a sventare né lo sgarbo lacerante (in tutti i sensi) alla madre, né l’attacco incendiario subìto nel dicembre di quasi otto lustri dopo.
L’attesa sarà lunga… la pazienza mi fortificherà
Siamo nel ‘36 e ha già scritto “I tormentati” (che, rimaneggiato, diverrà “Il viaggio”, pubblicato però dopo la sua morte) e “Le baracche”, inedito fino al ‘42. Difende caparbiamente questa sua privacy rimandando, con il rischio d’apparire sgarbato, all’estate successiva (allorquando la sua casa potrà dimostrarsi meno fredda e inospitale) la visita preannunciata dall’interlocutore bovalinese, più giovane di cinque anni, con cui non ha troppa dimestichezza e non si sente ancora a suo agio. Gli confessa tuttavia d’essere stato costretto, per subentrate necessità economiche, a riprendere l’attività professionale di procuratore legale e d’aver ricevuto, da parte di Corrado Alvaro, unitamente a sincere critiche e osservazioni, il consiglio di trasferirsi nella capitale. Allo stesso momento, gli manifesta l’intenzione di proporre una commedia (“La beffa al forestiero”, “La signora Carla” o “Lena”?) a Bragaglia (molto probabilmente Anton Giulio) per il Teatro degli Indipendenti, senza sapere che questo si trovasse allora in lento declino.
Sulla scorta dell’aforisma di Georges-Louis Leclerc de Buffon (“Le génie n’est qu’une plus grande aptitude à la patience.”) formula il proprio motto: “…e se l’attesa sarà lunga, la pazienza mi fortificherà”, che va quasi giustificando con queste considerazioni: “Ognuno di noi ha sortito da natura un temperamento, un’indole, s’è formato un carattere, l’educazione che ha ricevuta, il genere di vita che ha condotto, le privazioni che ha passate, le sofferenze che ha patite, gli hanno fornito delle attitudini e fornito un’esperienza: e la sua opera non può non portare i segni di tutto ciò…”; con un’appendice, rivolta direttamente a La Cava: “La perfezione dell’uomo non coincide con la perfezione dell’arte, a meno che tu per perfezione non intenda la maturità”.
“Pagine di Diario”
Seminara riconosce d’aver inserito nel proprio racconto “Il grillo e la mula” qualche insostituibile “frase a effetto”, ma definisce “popolare” l’espressione linguistica di Francesco Perri, in “Emigranti” (1928), e di Marianna Procopio, in “Pagine di Diario” (pubblicato successivamente sulla rivista “Letteratura”, nel 1938, con il titolo “Diario e altri scritti”), quando ancora non sa che si tratta della madre del bovalinese. Poi cambia registro e dice che la lettura di quelle pagine gli ha dato: “la stessa delizia unita qui a una profonda commozione per la delicatezza del sentimento che ha ispirato l’autrice, che danno le prose di alcuni nostri trecentisti: il Diario ha la semplicità e la naturalezza dei Fioretti, l’ingenua freschezza di certe prose di questi illetterati (leggi per es. i passi che parlano della morte di S. Caterina riportati nella Storia della Letteratura italiana del De Sanctis). Con che squisita delicatezza tua madre sa parlare delle bizze e della permalosità della vecchia madre! Con che tocchi felici e commoventi insieme sa rievocare i ricordi dell’infanzia e delle angustie domestiche! È arte questa? Mi fanno ridere quei critici che pretendono di esaminare l’opera d’arte come i chimici analizzano la natura nei gabinetti, e mi fanno stomaco le ricette ch’essi dispensano ogni giorno. Dice D’Annunzio: ‘è l’arte è sempre da trovare’ [“La Leda senza cigno”?]. Tremenda confessione d’uno scrittore che tutta la sua vita aveva cercato l’arte, credendo qualche volta di averla trovata nell’artificio!”.
“La Leda senza cigno”
Il testo dannunziano de “La Leda senza cigno” (1916), nel narrare le delusioni d’una donna, la cui vita sembra dominata da una fatalità che la rigetta di continuo nelle quotidiane meschinità, era strutturato, infatti, a bella posta in forma di racconto nel racconto.
“Questo mi fu raccontato ieri, prima di sera, sul pontone piatto che la bassa marea lasciava in secco a poco a poco, mentre udivamo intorno bruire la vita nascosta delle sabbie e a quando a quando il chiù rammaricarsi nelle macchie litorali fiorite di ginestrelle e di giunchi marini…”.
Evidente la golosità del Vate per le friandises del suo soggiorno francese, durante il quale risentì delle influenze, evocativa e quasi surrealista, di Romain Rolland, e di quella estetista dell’inglese Algernon C. Swinburne, che, come si sarebbe potuto esprimere un altrettanto affettato e appassionato lettore, lasciano un retrogusto dal deciso sapore umanistico di dolciastra ricercatezza lessicale, frammisto al visionario baluginare di un princisbecco che non può trasformarsi in oro, neppure se “cruscheggia”!
“Il matrimonio di Caterina”
Mario La Cava, dall’età di ventiquattro anni, nel ’32, aveva pronto “Il matrimonio di Caterina”, apparso integralmente soltanto nove lustri dopo, e portato sullo schermo televisivo da Luigi Comencini, nel 1982, fuori tempo massimo però sia per il filone neorealistico che per il periodo della commedia all’italiana, con il grave rischio di ripiegare sul patetico una certa retorica della nostalgia per la società rurale del meridione. Un estratto era apparso comunque sulla rivista “Caratteri” di Mario Pannunzio e fu forse questa strana congiuntura con quella testata di riferimento, unita alla suggestione dei classici, dallo scolarca Teofrasto all’aforista e moralista francese del XVII sec., Jean de La Bruyère, che impresse alle sue successive naturalistiche annotazioni, aneddotiche o liriche, quel titolo distintivo nella conclusiva pubblicazione del 1939, accresciuta in seguito nel ‘53.
Lo zio Francesco
A casa dello zio Francesco (“libero docente di medicina, ma si interessa di studi religiosi… ed è quello che ha scoperto il volto di Michelangelo nella Cappella Sistina” – di lui Seminara conservò l’opuscolo con dedica “Nequando Convertantur”) avrebbe conosciuto lo storico Ernesto Buonaiuti, perseguitato dalla Chiesa e dal Fascismo, a cui poi avrebbe dedicato “La ragazza del vicolo scuro” (1977).
“Letteratura”
Seminara intanto nutre la speranza d’aver accesso a un “trimestrale fiorentino di letteratura contemporanea” (che per la rubrica di cronache musicali si avvaleva della collaborazione di Gianandrea Gavazzeni, poi sostituito da Riccardo Malipiero jr.; le cronache cinematografiche erano curate da Giansiro Ferrata, a cui subentra Gilberto Altichieri e poi Claudio Varese; delle cronache d’arte se ne occupava Michelangelo Marciotta e dopo Giulio Carlo Argan).
“L’Italiano”
L’altro periodico che gli suscita particolare attenzione è “L’Italiano”, raffinata “Rivista settimanale della gente fascista”, futuristicamente impaginata su quattro colonne con caratteri tipografici aldini e bodoniani, dove Leonardo Sciascia lesse quelle prime “cose” di Mario La Cava che “costituivano per me esempio e modello del come scrivere: della semplicità, essenzialità e rapidità a cui aspiravo”.
Da Messina giunge a Maropati, senza che Seminara se lo aspetti, un numero di “Ponte”, in cui riconosce la firma del francesista Glauco Natoli, esperto di Stendhal. Rivela, inoltre, della curiosità per il libro “I poveri sono matti” di Cesare Zavattini, non condivisa dal bovalinese che lo ritiene decisamente inferiore a “Parliamo tanto di me”, del’31.
Nel cominciare a pensare alla stesura di “Donne di Napoli”, lamenta la trascuratezza con cui ci si accinge a commemorare il centenario dalla morte di Aleksandr S. Puškin. Poi si ricorda dell’anniversario leopardiano, definendone la filosofia “dolorosa”, per pessimismo, ma “utile” nel procacciare “fiera compiacenza”.
“Io credo che anche a me si convenga quello che scriveva Leopardi al Brighenti: sono persuaso di quello che dite, sono anche assicurato dall’esperienza che ciascuno s’adopera per sé, pochissimo per gli altri, e nessuno ha mai voluto adoprarsi per me”.
“Le baracche”
Sospetta che Alberto Moravia (che nel ’29 era riuscito a farsi pubblicare da Arnaldo Mussolini il primo romanzo esistenzialista, “Gli Indifferenti”; mentre “Le ambizioni sbagliate” appare nel ‘35) avesse richiesto il manoscritto de “Le baracche” a Leo Longanesi, il quale, pur mandando in stampa su “Omnibus” la novella seminariana “Dopo la festa” (“Fine della festa”, o “I mendicanti”), non avrebbe mai potuto “licenziare” integralmente quel romanzo con la tranquillità e certezza d’evitare proprio l’implicito equivoco temporale che lo facesse inquadrare come negativo, pericoloso ed “esplosivo” nei confronti dell’allora vigente regime (“per via degli ambienti e personaggi troppo tetri e pessimisti” de “Le baracche”). Anche Garzanti lo avrebbe rifiutato, come altri editori interpellati, e sempre per questa “convenienza politica”.
Il bovalinese riesce ad allargare la cerchia degli estimatori dell’amico di Maropati, tra conoscenze e parenti, i quali si rivelano acuti lettori e recensori. Sussiste infatti una qualche perplessità, da parte di Attilio Colacresi, cugino di La Cava, interpellato da Seminara quale medico esperto, anche in “paranoia” (per via del personaggio di Rosario genericamente “pazzo”, in “Donne di Napoli”), nonché critico improvvisato de “Le baracche”, relativamente all’ambiguità del momento fondamentale del romanzo, l’incontro tra Cata e Micuccio, che giudica come un “tallone d’Achille”. I due si ritrovano soli nella stessa stanza e ciò, per la preclusione contemporanea della gente di provincia, è sufficiente a reputare la fragilità femminile irrimediabilmente compromessa se non completamente disonorata. Il significato della storia si regge proprio su quest’equivoca dialettica tra eventi reali e pettegolezzi desunti da impressioni preconcette, razionalità e pregiudizi.
Le cento pagine iniziali vengono definite “eccellenti”, per lirismo, nonché sviluppo logico e serrato. Nella seconda sezione, però, a Colacresi quella costruzione letteraria appare: “affrettata e precipitosa, assolutamente ineguale e affatto proporzionata alla prima. Mi viene quasi da azzardare una ipotesi: cioè che lei, fino a che si trattò di parlare di cose reali e di trarre dalla vita paesana persone e fatti nelle sue pagine è riuscito magnificamente, ma quando poi a lei, nella seconda parte, toccò di passare a dar coordinamento e conclusione logica, a far vivere insomma con la sua fantasia da personaggi di romanzo i suoi esseri e non persone reali, si trovò enormemente impacciato tanto che ne derivò un epilogo affrettato e precipitoso, impari alla parte precedente del romanzo. Ne risulta così, a mio avviso, qualcosa di sproporzionato. E, secondo me avrebbe dovuto dare più ampio respiro alla seconda parte, più ampio sviluppo e, soprattutto, avrebbe dovuto dare uno svolgimento più consono alla mestizia profonda del tono della sua espressione, altamente lirica, e non incorrere in lievi fatuità (es. calderaio che immediatamente chiede di sposare Cata) che scalfiscono la organicità di tutto il romanzo. Questa per me la deficienza più rimarchevole circa la costruzione e proporzione del romanzo…”.
Sottilmente, Colacresi gli evidenzia pure i forti riferimenti classici, quasi scolastici: “Non le ripeto l’osservazione fattale a voce circa l’evidente richiamo a delle scene manzoniane (es. avvocato-polli ecc.): c’è però nelle sue scene, per quanto arieggianti a quelle manzoniane, molta originalità che basta per renderle egualmente pregevoli…”.
E ha anche qualcosa da eccepire a proposito dell’espressione linguistica seminariana, troppo poco spontanea e consueta (“popolare”): “Per quanto lei abbia subito risposto alla mia osservazione pel suo toscaneggiare che in Toscana quello che a noi pare toscaneggiare è invece lingua naturale e corrente, pur tuttavia io, a mio modesto modo di vedere, torno ancora a ripeterle che c’è in lei un virtuosismo, un manierismo linguistico. Non crede, per esempio, che sia più naturale, e quindi più bello ed artistico dire semplicemente ti do uno schiaffo – oppure un ceffone? E non: ‘Ti do una sberleffa’? Credo sberleffa s’intenda, seppure s’intende, solo in Toscana. E l’Italia non è la sola Toscana, per quanto lei, sicuramente, insisterà ad obiettare che l’Italia degli scrittori è la Toscana.”
Dopo aver visto la novella “Fine della festa” su “Omnibus”, Francesco Perri (celebre per aver attirato su di sé, nel 1925, l’avversione del Regime, a causa del libro “I conquistatori”, dato pubblicamente alle fiamme, e per aver ciononostante vinto tre anni dopo il premio Mondadori con “Emigranti”) fa sapere al maropatese, per il tramite di Mario La Cava, d’averla trovata “bellissima, fatta con gusto e con un senso di poesia che mi fece ricordare – e guarda che è una cosa enorme – qualche pagina di Céchov. Il Seminara è certo un artista. Non so in che misura abbia le capacità costruttive, ma, se come ha il gusto, ha anche quelle, gl’italiani non tarderanno ad accorgersi di lui...”
“I tormentati”
Come un personaggio del suo romanzo, Seminare è “tormentato” dalla costante ricerca di conferme e di consigli: “Non hai forse avuto l’impressione che il protagonista [de “I tormentati”] sia unico, perché il racconto è in prima persona? E ancora, che il romanzo manchi d’intreccio, perché paiono tutte avventure avvenute a colui che racconta? Diresti per esempio che il Don Chisciotte sia un romanzo senza intreccio? – o meglio [romanzi in prima persona] Umiliati e offesi, Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti”.
“Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti”
La conoscenza di quest’ultimo titolo, poco noto allora come oggi (se non fosse per la citazione che ne ha fatta Leonardo Sciascia in “Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia”, del 1977), denota una grande familiarità con gli scritti dei grandi autori russi. Dopo la pausa forzata dei dieci anni per la condanna subìta nel 1849, Fëdor Dostoevskij lo giudicava pieno di difetti, compensati però da altrettanti pregi, per cui alla fine di questo calcolo sommario gli risultava addirittura la sua opera migliore.
Sullo stesso numero de “L’Orto” (redatta dai fratelli Vecchietti con l’apporto di altri, tra cui Nino Corrado Corazza e Giannino Marescalchi), in cui compare un brano de “Le baracche”, del La Cava si legge “Tempesta”, e dove trova spazio il racconto seminariano “Padre e figlio” (ristampato in “Il mio paese del Sud”), del bovalinese c’è la novella “Gente di campagna”, approvata dall’amico di Maropati, e per densità e per perspicacia, più del “Pescatore”, ospitata invece su “La Riforma letteraria” (di Alberto Carocci e Giovanni Noventa); mentre su “Il Selvaggio” (di Bencini e Maccari) sempre del La Cava escono ancora “Dialoghi” e “La Signora di Bombile”.
A proposito di “Gente di campagna”, Seminara si sofferma comunque a suggerire qualche annotazione critica, “… bada però che quella cadenza dei periodi arieggianti motivi di diletto, che ora illeggiadrisce la tua prosa, non diventi col tempo cagione di compiacenza e quindi una maniera…”.
Disgrazia!… in casa sua
Con la corrispondenza dei primi di settembre di quel fatidico 1937 veniamo a capire da dove trae origine la trama di “Disgrazia in casa Amato”, che ruota attorno a uno “sfregio”, motivo di conflitto tra l’etica tradizionale dell’onore da difendere, per esercitare quanto viene convenzionalmente considerato dalla cultura popolare un sacrosanto diritto, e l’inadeguatezza di chi non ha modi, o forse manca solo di coraggio sufficiente, per porsi all’altezza di certe aspettative, disattendendole, con il risultato d’essere incompreso, malvisto e altrettanto malgiudicato.
Negli ultimi giorni del mese precedente, la madre di Seminara venne gravemente ferita al volto, con una coltellata sferrata dal capraio “danneggiatore e delinquente”. “Fuggirò di qua il più presto che potrò col proposito di non tornare più. Questo luogo che io non amavo, ora l’odio con tutta la forza di cui l’animo mio è capace…”. Il racconto autobiografico “Vendetta” (poi inserito definitivamente nel romanzo) lo scrive pertanto di getto, in preda all’ira del momento!
La Cava attutisce questa tumultuosa pulsione: “Tu un solo dovere hai: quello di metterti nelle migliori condizioni per lavorare bene; ed è probabile che ciò lo possa fare solo nel paese”. Da psicologo empatico, seppure “amatoriale”, frena tanta nervosa irruenza con l’invito alla sublimazione dell’impeto emotivo: “Solo sfogo possibile gridare al mondo il proprio dolore e confidarsi agli amici, come tu dici: trasferire, cioè, le proprie speranze e le proprie aspirazioni dal campo delle passioni comuni alla creazione d’un’opera immortale in spirito, sola cosa che in tutto o in gran parte dipende da noi… Tutto il mondo è uguale e dovunque si hanno gli stessi fastidi. Inutile sperare di poter star meglio…”. Da vaticinatore poetico e illuminato, il bovalinese gli predice come il volgo, per sua stessa natura, sarebbe molto più propenso a scambiare quella modesta semplicità, tipica delle persone sobrie, per dabbenaggine e la spontanea predisposizione verso il raccoglimento e la meditazione per provocatoria e spocchiosa altezzosità.