Da Milano Finanza del 18 settembre
L’intervista rilasciata dal governatore della Banca d’Italia a un primario quotidiano solleva più dubbi che certezze sulle caratteristiche della veduta lunga che egli sollecita. Partiamo dall’Europa: in apertura egli afferma che si sono adottati meccanismi per «la risoluzione delle crisi sovrane» (tutta da dimostrare, chiediamolo a Tsipras e non solo a lui), ma «sul versante della convergenza verso l’Unione politica siamo ancora indietro. O almeno prevale una tendenza all’essere intergovernativi più che federali»; in chiusura sostiene che il documento dei 5 presidenti delle principali istituzioni europee ha generato «l’equivoco di interpretare le proposte come ulteriori cessioni di sovranità nel medio periodo, mentre l’integrazione europea richiede oggi maggiore condivisione di sovranità e di responsabilità. Ci si dovrebbe parlar più chiaramente». Quello che gli chiedo, non tanto per me, ma affinché il cittadino capisca, è che cosa esattamente significhino queste due risposte. Se l’Europa non va verso l’unificazione politica e si addentra nella gestione intergovernativa possiamo accettare una tale veduta lunga? Qual è la differenza tra la cessione e la condivisione della sovranità fiscale? La condivisione equivale all’accettazione di una gestione in comune della stessa, ossia una simulazione dell’unione politica, che contrasta con il tipo di gestione intergovernativa dell’Europa in cui i tedeschi, spalleggiati dai francesi, dettano legge. Per quanto mi riguarda ho già detto la mia, avvertendo da queste stesse colonne che prima o poi si arriva allo scontro impreparati (cioè senza Piano B, come Tsipras) e segnalando al presidente Mattarella che stanno confezionando al Paese una con divisione della sovranità fiscale che ha gli effetti della cessione, trasformando l’Italia in una colonia politica; gli ho segnalato (cosa che ritengo inutile) che, ai sensi del dettato costituzionale, non potrà mai firmare un tale accordo.
Questo è senz’ altro l’aspetto principale dell’intervista del governatore della Banca d’Italia, al quale però si aggiunge l’interpretazione che l’economia italiana stia migliorando mossa soprattutto dalla politica monetaria, ma sorretta da alcuni provvedimenti fiscali, nonostante sia collocata nei vincoli europei e nei «tempi che cambiano».
Naturalmente sostiene che le riforme vanno continuate e migliorate. Queste valutazioni vanno affidate alle capaci mani della storia e degli storici, quindi al di fuori di ciò che afferma la cronaca e la gran parte dei giornalisti.
Mi auguro che abbia ragione, per il bene del Paese. Tuttavia anche la sua analisi sul ruolo dei mutamenti epocali, principalmente nei riflessi dei progressi tecnologici sull’uso del lavoro umano, solleva non pochi dubbi. Egli avverte che la disoccupazione è un problema centrale della politica di un qualsiasi Paese democratico, ma non indica la veduta lunga alla quale la politica economica si deve ispirare per riassorbirla. Se il pathos messo nell’accogliere gli emigranti fosse posto con la stessa intensità per riassorbire 18 milioni di disoccupati in Europa, si farebbe un grosso passo avanti. Quando nel 1963 ci fu la prima crisi di bilancia dei pagamenti che denotava la fine del miracolo economico, la Banca d’Italia cominciò a interrogarsi se il modello export-led (trainato dalle esportazioni), che fino a quel momento aveva funzionato, avrebbe potuto ancora garantire crescita e occupazione. La politica offriva la proposta di affiancare al cavallo delle esportazioni quello della spesa pubblica; la Banca d’Italia guidata da Carli proponeva un’interpretazione dove la variabile centrale era la distribuzione del reddito governata attraverso il controllo salariale o l’inflazione.
I lavoratori si difesero introducendo la scala mobile. Ci vollero i consigli di Franco Modigliani che con Giorgio La Malfa propose alla Banca d’Italia un modello di sviluppo centrato sul controllo della domanda aggregata (quindi esportazioni, ma anche consumi, investimenti e spesa pubblica), generando il primo modello econometrico dell’economia italiana che fu usato come riferimento per le nuove scelte di politica economica.
Oggi, invece, la Banca d’Italia segue il modello politico-economico dell’Unione Europea e l’intervista del governatore ne è piena conferma. Perciò nel mio J’accuse (Rubbettino, 2015) affermo che la crisi italiana è dovuta al venir meno del ruolo che la Banca d’Italia, a lungo il centro di analisi più libero e ben organizzato del Paese, svolgeva per capire i mutamenti epocali (e quelli che precedettero il 1968 lo furono per molti versi). Il modello europeo di competitività, a moneta facile e fisco difficile, è esposto a continue crisi esterne (quelle che gli economisti chiamano shock esogeni) senza avere l’architettura istituzionale per farvi fronte, né sul piano monetario, né su quello fiscale. La versione della veduta lunga del governatore ratifica, ossia non innova, questo modello. Da qui la preoccupazione che questa Europa, così com’è e come si prospetta, non può funzionare.
Di Paolo Savona
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