Da Il Dubbio del 29 luglio
Gli amici Fabrizio Cicchitto e Peppino Calderisi, letto il libro Perché è saggio dire No (edizioni Rubbettino), che ho scritto con Valerio Onida, mi accusano di essere un abile manipolatore, uno spiritello machiavellico che, dopo aver sostanzialmente scritto la riforma costituzionale, avrebbe iniziato di punto in bianco a criticarla nel merito e nel metodo. Fabrizio e Peppino riprendono in forma più cortese una precedente invettiva del professor Stefano Ceccanti sull’Huffington Post. Ceccanti, a sua volta, alla luce delle mie argomentazioni e del mio percorso precedente, mi attribuisce la presunzione di voler invertire il corso delle cose, pretendendo che sia il sole della riforma a girare intorno alla terra delle mie opinioni e delle mie asserite convenienze. Così ovviamente non è ma, se anche così fosse, astronomicamente parlando mi troverei comunque un passo avanti rispetto ai miei illustri critici. Pur capovolgendone l’ordine naturale, avrei infatti in ogni caso preso in considerazione il movimento, laddove i loro giudizi sembrano scontare l’idea di un sole renziano che splende immobile su una terra anch’ essa immota.
Il movimento è stato invece un protagonista assoluto di questa vicenda. Non so se i miei amici se ne sono accorti, ma nel corso di questa legislatura, partita con l’intento di unire il Paese attraverso nuove regole condivise per poi rigenerare la cultura politica dei rispettivi schieramenti, sono accadute alcune cose. Nell’ordine: si è rotta la maggioranza che sosteneva il governo di unità nazionale; è nata una forza, l’Ncd, per provare a non disperdere il proposito iniziale; Enrico Letta è stato disarcionato e sostituito da Matteo Renzi; è stato siglato il patto del Nazareno; è stato poi ammazzato il patto del Nazareno al momento dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica; una legge elettorale che avrebbe dovuto essere ridiscussa, per armonizzarla alla riforma costituzionale in un successivo passaggio parlamentare in Senato, è stata approvata alla Camera con il colpo di mano di un voto di fiducia; da allora in poi nessuna proposta migliorativa è stata presa in considerazione; il presidente del Consiglio ha detto che se vincerà il referendum le opposizioni saranno “spazzate via”.
Di fronte a questa sequenza di avvenimenti, restare immobili non è segno di saggezza. Per giustificare un adeguamento di analisi e una evoluzione di prospettiva non serve nemmeno scomodare il “contraddissi e mi contraddissi” di sciasciana memoria e neppure appellarsi alla “politique d’abord” cara a Nenni. Basta rifarsi all’essenza della politica che non contempla atteggiamenti passivi e supini, ancor più quando si discute di riforma costituzionale. In quest’ambito, infatti, il metodo è importante almeno quanto il merito, e se alla fina della favola anziché in un Paese più unito ci troviamo in una Italia spaccata in due sulle regole del gioco, e anziché a un rinnovato confronto fra princìpi alternativi assistiamo alla messa al bando dei princìpi dalla lotta politica, la responsabilità primaria è del governo e di chi l’ha guidato.
Per quanto mi riguarda, ho deciso a un certo punto di reagire. L’ho fatto per convenienza? Ricordo sommessamente ai miei amici di essere volontariamente uscito dal governo al momento del passaggio da Letta e Renzi; di aver “tirato la carretta” come coordinatore di un partito che con il tempo, e con ogni evidenza, ha mostrato di avere un doppio fondo; di non aver accettato altri incarichi anche quando mi sono stati proposti. Fabrizio ricorderà sicuramente, a tal proposito, una cena all’ “Ambasciata d’Abruzzo”.
Potrei anche fermarmi qui. Il fatto, però, è che anche quel che Peppino va dicendo a destra e a manca, e cioè che il testo della riforma sia fondamentalmente identico al contenuto della relazione dei “saggi”, è affermazione opinabile e confutabile. Non nego che l’impianto somigli a quello all’epoca delineato. E non rinnego il mio contributo per raddrizzare il testo presentato originariamente dal governo Renzi sul bicameralismo: una barzelletta. Accanto a questo rivendico però le modifiche proposte (invano) durante il percorso della riforma, di cui resta traccia negli interventi parlamentari e in appositi disegni di legge; rivendico le critiche puntuali formulate e i tentativi fatti affinché venissero accolte.
Certamente non sfuggirà ai miei critici che una riforma costituzionale esige così tanti passaggi parlamentari proprio perché è intesa come un processo, nel corso del quale si dovrebbe sciogliere i nodi e provare a includere quante più forze politiche possibili. Per questo ciò che conta è il voto finale, soprattutto se negli step precedenti sono stati evidenziati punti critici e avanzate proposte migliorative.
Sfido chiunque a dimostrare che io questo non lo abbia fatto, soprattutto rispetto alle conseguenze del combinato disposto tra riforma costituzionale e Italicum. Mi si dice: ma tu la legge elettorale l’hai votata nella sua unica lettura in Senato! A questo proposito, Fabrizio è testimone del presunto impegno assunto dal presidente del Consiglio, comunicatoci dai vertici di Ncd, a ridiscutere l’Italicum insieme alla riforma costituzionale in un ulteriore passaggio in Senato. Il mio amico Cicchitto ricorderà anche gli sforzi che feci per evitare che si accettasse di far passare la legge elettorale con il voto di fiducia. E ricorderà una drammatica riunione dello stato maggiore di Ncd, tenutasi a casa sua, nella quale dissi chiaro e tondo che se non vi fosse stato in un tempo politicamente utile un impegno esplicito a modificare la legge elettorale non avrei votato la riforma e avrei lasciato il partito.
Cosa che poi puntualmente ho fatto. Allora sul carro del vincitore erano in tanti a salire. E molte delle argomentazioni da me esposte in quella riunione le avrei ritrovate, dopo la vittoria della Raggi a Roma e della Appendino a Torino, nelle analisi di quelli che allora non vollero ascoltare. Il fatto è che questa riforma, oltre agli errori di metodo e di merito, pone un problema di sistema. Essa nega di fatto legittimità politica a un’area politica (il centrodestra), disperde la speranza di recuperare una dinamica bipolare e riporta le lancette dell’orologio all’indietro, quando la competizione politica era fra sistema e anti-sistema.
Noi – lo dico ai miei amici – non eravamo nati per questo. Volevamo rinnovare la nostra parte politica e proiettarla verso una nuova stagione. Ci siamo chiamati Nuovo Centrodestra: un nome brutto che aveva però almeno il merito della chiarezza. Non siamo nati per fare da compagni di strada a un nuovo demiurgo al quale concedere tutto salvo poi, di fronte ai suoi evidenti fallimenti, sostenere la tesi strampalata che è ormai troppo tardi per cambiare. Questa riforma così mal gestita può passare solo per paura: paura che non ci sia una nuova occasione, paura per l’atteggiamento dell’Europa, paura della mancanza di un’alternativa. Ma un Paese che riforma la sua legge fondamentale per paura è già un Paese sconfitto.
di Gaetano Quagliarello
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