Da Il Giornale del 16 maggio
Viviamo in un mondo descritto e governato da giuristi e da economisti: sembra quasi che diritti (civili, sociali etc.) e interessi (salari, tenore di vita etc.) siano l’alfa e l’omega del discorso su ciò che tiene uniti gli uomini.
Che ci sia qualcosa d’irriducibile al Tribunale o alla Borsa è pensiero che non sembra neppure sfiorare i tanti filosofi politici che è sempre più difficile distinguere dai filosofi della morale e da quelli del diritto e dell’economia. Eppure in area liberale come in area democratico-progressista c’è ancora chi pensa, con Massimo Cacciari, che bisogna tornare alla politica che «inventa e crea energie all’interno della società» e «riesce a mobilitare dei fini che possono andare anche totalmente contro ogni criterio di utilità (questo è il grande vizio di ogni determinismo materialistico, economicistico e sociologico)».
In Francia, è soprattutto la scuola di Raymond Aron che continua a elaborare un «discorso politico», all’interno di un liberalismo che sembra talora assumere tratti spengleriani, nel senso che teme il tramonto di una civiltà che in Locke, in Montesquieu, in Kant aveva riconosciuto i suoi profeti.
Un’espressione alta di questo stile di pensiero è la produzione scientifica di Pierre Manent, noto in Italia per la Storia intellettuale del liberalismo e In difesa della nazione, entrambe nel catalogo dell’editore Rubbettino, il quale pubblica oggi la sua opera forse più impegnativa, Le metamorfosi della città, a cura di Giulio de Ligio e con un’introduzione di Alessandro Campi.
Si tratta di un «saggio sulla dinamica dell’occidente» complesso, ricchissimo di riferimenti storici e culturali che cerca di illuminare i problemi del presente attraverso la rilettura di quelli che potrebbero essere chiamati gli statuti della mente europea: da Aristotele a Montaigne, da Platone ad Agostino, da Cicerone a Montesquieu, passando per i classici del pensiero politico ottocentesco, come Alexis de Tocqueville e Karl Marx. Va detto subito che il liberalismo di Manent non è il neo-liberalismo delle regole basato «sui principi elaborati con molta accuratezza e formulati con molta ampiezza da Hayek». Oggi tutta la vita sociale sembra «disponibile per la governance delle regole: non più governi responsabili davanti a un corpo di cittadini che formano un popolo, ma regole elaborate da un numero infinito di comitati competenti che non sono responsabili davanti a nessuno, la loro legittimità essendo sufficientemente manifesta nell’evidente bontà della regola». Non era questo, però, lo spirito del liberalismo classico che, come le altre grandi dottrine politiche occidentali, era «ricerca e costruzione d’un miglior governo».
Il fascino della pagina di Manent non sta tanto, a mio avviso, nella suggestiva illustrazione delle epoche che hanno scandito le dinamiche dell’Occidente – la città greca, Roma, la Chiesa, la nazione – quanto nel sottolineare il nesso profondo tra politica e polis iscritto in quella rivoluzione epocale che fu la città, l’istituzione che dissolse i vincoli ancestrali dell’ordine familiare e tribale. «La città, ed è questa la migliore definizione che se ne possa dare, è un’azione comune, o, se preferite, un’azione nell’elemento comune, nell’elemento della cosa comune o pubblica. La città non è essenzialmente uno strumento per soddisfare i nostri bisogni – vitto, alloggio, indumenti, ecc. -, secondo l’illusione dei realisti, degli economisti, che si sbagliano tante volte quante calcolano. La città non è nemmeno essenzialmente uno strumento per proteggere i nostri diritti, secondo l’illusione degli idealisti che sono in realtà d’accordo con gli economisti perché i diritti umani di cui parlano si radicano nel diritto, cioè nel bisogno o nella necessità, di conservarsi o di vivere. Ma non si vive per vivere, si vive per agire. La città è uno sforzo per produrre e padroneggiare, o per ordinare, quell’azione, quell’operazione, quell’energia attraverso cui la vita si comprende, cioè prende coscienza di sé, dispiegandosi». Per questo è nella polis che nasce la filosofia come giustificazione razionale del fare.
Sarebbe interessante seguire l’autore nel passaggio dalla città antica all’impero romano e dalla crisi di quest’ultimo alla nazione moderna. Ogni volta che i confini dello spazio politico, per ragioni varie, mutano, «è la forma del bene comune» che diventa indeterminata. L’ultima grande creazione dello spirito occidentale è la nazione, definita come ordine politico, cosa pubblica, «messa in comune», nella consapevolezza che pensare e agire politicamente significa pensare e volere entro un certo ordine territoriale. La fine della nazione ha comportato la trasformazione della democrazia da polis a rivendicazione di nuovi diritti. Oggi l’umanità è l’unico riferimento di valore rimasto dopo l’esaurimento delle nazioni, sennonché essa «è tutt’al più la cornice di riferimento di un sentimento del simile su cui è impossibile alcuna costruzione politica». E, in ogni caso, «mentre l’umanità che mise in movimento gli uomini del 1789 era ispiratrice e capace di alimentare le più vaste ambizioni, l’umanità in nome della quale si decreta oggi la regola sa solo proteggere ciò che è e proibire ciò che potrebbe essere».
Di Dino Cofrancesco
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