Ritorna oggi in libreria il volume di Gioacchino Volpe, Da Caporetto a Vittorio Veneto, a cura di Andrea Ungari e con un saggio introduttivo di Eugenio Di Rienzo (Rubettino Editore). Dopo 88 anni, il lettore e lo studioso hanno così, nuovamente, a loro disposizione, uno strumento essenziale per comprendere la storia militare e civile della Grande Guerra, vista dalla parte del suo autentico protagonista: il Popolo italiano.
Ripubblicare oggi il volume di Gioacchino Volpe dedicato alla disfatta dell’ottobre 1917 e alla ripresa italiana che portò all’affermazione di Vittorio Veneto vuol dire, infatti, non soltanto riportare alla ribalta un classico della storiografia italiana arricchito, in questa edizione, dal importanti inediti dell’autore. Il vero e attualissimo interesse di questo volume è nel tentativo di Volpe analizzare la severa disfatta di Plezzo e Tolmino dalla prospettiva del «fronte interno», per creare un approfondito saggio storico-sociologico dell’Italia in guerra.
Una grande sconfitta sul campo non è mai, infatti, un mero evento bellico, ma è conseguenza delle debolezze e delle contraddizioni della vita civile di una comunità. Analizzando la catastrofe militare francese del 1940, un altro grande storico, come Marc Bloch ha parlato di una «strana disfatta», che, più ancora che dalla superiorità militare tedesca, era stata provocata dalla crisi morale dell’opinione pubblica francese alla vigilia del nuovo grande conflitto. Egualmente «strana» fu anche la rotta di Caporetto, almeno nel giudizio di Gioacchino Volpe formulato in un volume, già pronto per la stampa nel 1928 ma la cui pubblicazione fu significativamente ritardata per ben due anni da Mussolini.
In quello studio, che vedrà la luce solo nel 1930, Volpe individuava, come sostiene Di Rienzo, la causa del tracollo militare (meno grave comunque, per perdite umane e materiali e conseguenze strategiche, dell’ecatombe austriaca in Galizia, del disastro dell’Intesa a Gallipoli, delle carneficine della prima battaglia della Marna, di Verdun e della Somme più che nella sclerosi dei comandi o nell’«eccesso antistatale della politicizzazione operaia» che avrebbe contagiato l’armata, nel «difetto di coscienza politica», nella «lontananza dallo Stato» del Popolo italiano. Lontananza secolare, che ne rese debole e intermittente il legame di appartenenza. Lontananza, infine, che riguardava non solo e non tanto le «masse in grigioverde», ma soprattutto quei «figli della media borghesia», che, dopo aver frettolosamente indossato la divisa, erano stati impari al loro compito e si erano rivelati nettamente inferiori nel confronto con i giovani borghesi di Nazioni impegnate nel conflitto (Austria-Ungheria, Germania, Francia, Inghilterra).
Un’analisi severa, questa di Volpe, non discorde, però, da quella di Adolfo Omodeo, che in una lettera inviata alla moglie nel settembre del 1916, aveva parlato dei tanti «sottotenenti improvvisati» che, ancora imbevuti della propaganda neutralista, socialista e cattolica, costituivano «il lato debole della nostra guerra». Da questa visuale Caporetto apparve allo storico del Comune pisano del XIII secolo come l’effetto del distacco degli Italiani verso «un’ancora mal conosciuta patria» e della fragilità dei vincoli di appartenenza civile che ne derivavano. Era un distacco che non riguardava solo «la plebe delle trincee» ma che albergava anche nelle classi dirigenti del Paese e che portava lo storico a investigare, senza pregiudizi, le agitazioni proletarie, i moti socialisti, la propaganda neutralista e disfattista e anche le condizioni di lavoro della manodopera impegnata nello sforzo bellico. Per la situazione economica del proletariato in guerra, Volpe parlava, infatti di violento «sfruttamento», a causa del quale l’operaio veniva a ridursi a «semplice arnese di lavoro, privo di ogni cura», aggiungendo che il «senso dello sfruttamento era acuito dai grandi guadagni padronali, ottenuti durante il periodo bellico, a scapito dei pure aumentati guadagni operai che non tenevano però il passo con l’elevato costo della vita».
Suonata l’ora della riscossa, nella prima battaglia del Piave, poi in quella del Solstizio, infine, a Vittorio Veneto questi fattori negativi non scomparvero. Volpe fu obbligato ad ammettere, insieme a Croce, Amendola, Soffici, Prezzolini (ma anche a Gramsci), che i «veleni di Caporetto» non furono debellati neppure dalla vittoria militare. Quelle tossine, a lento rilascio, compromisero, infatti, la posizione internazionale dell’Italia al tavolo della pace e sconvolsero violentemente nel dopoguerra il tessuto sociale e politico della nostra comunità nazionale. E non a molto, forse servì l’esortazione di Volpe che nelle pagine finali del suo volume lanciava un monito valido oggi come ieri, ma rimasto sempre inascoltato.
Caporetto, con tante recriminazioni, rinfacci, esami storici; con tanto frugar dentro e gridar alto sui tetti; Caporetto, che già nelle primissime ore aveva assunto per opera nostra, al cospetto del mondo, proporzioni e carattere di irreparabile e quasi vergognoso disastro, crebbe, si dilatò ancora di più, rimase nella storia generale degli eventi bellici come fatto unico, quasi il fatto italiano per eccellenza, come la guerra italiana. Altre rotte, non molto minori di quella nostra, con manifestazioni collettive non molto diverse, si verificarono in primavera su altri scacchieri dell’Intesa. Meglio ancora: venne, nel giugno, la grande resistenza e la vittoriosa controffensiva nostra sul Piave, con effetti militari, politici, morali di enorme e generale portata; venne, a fine ottobre, la vittoriosa offensiva oltre Piave ed oltre monti, che spazzò l’esercito nemico ed affrettò la resa della Germania. E pur tuttavia, “Caporetto”, creato, un poco, da noi stessi, come 50 anni prima Custoza e Lissa, come venti anni prima Adua; “Caporetto” rimase e ancora rimane, e ogni tanto noi Italiani ce lo vediamo buttato fra i piedi da quanti hanno interesse a fermarci su la nostra strada.
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