Da Le monde diplomatique del 22 maggio
Scaduti i diritti d’autore, le librerie sono state letteralmente inondate di nuove edizioni di alcune opere di Benito Mussolini. Negli ultimi mesi si contano addirittura cinque riedizioni del diario di guerra che il futuro duce scrisse nei suoi anni al fronte e pubblicato originariamente sulle pagine del Popolo d’Italia, il quotidiano fondato proprio da Mussolini. Ampiamente promosso durante il ventennio, il diario appena rieditato ha avuto invece cattiva sorte nel dopoguerra, ignorato dalla ricerca storica e rapidamente uscito di scena, quantomeno dagli interessi del pubblico non specializzato. Eppure, di tutte le opere di Mussolini, questa merita davvero una riscoperta storiografica. Nonostante l’evidente interesse economico dato dalla scadenza del copyright, è allora con favore che dovrebbe essere accolta un’opera davvero particolare della vasta ed eclettica produzione mussoliniana. E ci sembra interessante anche il punto di vista proposto da Rubbettino, che nel presentare la propria edizione del diario (qui chiamato Giornale di guerra, secondo la definizione originaria dello stesso Mussolini) si affida ad una corposa introduzione di Alessandro Campi, un navigato intellettuale transitato dall’estrema destra alla riflessione post-fascista. Per tale motivo, di tutte le edizioni uscite in queste settimane, quella della Rubbettino appare l’unica in grado, potenzialmente, di squarciare il velo del già detto che da troppo tempo avvolge gli studi su Mussolini. Quantomeno per capire come una certa destra continui a fare i conti con il proprio passato e con se stessa. Sul Diario in questione tanto è già stato detto. Lo scritto si concentra sul periodo dicembre 1915-febbraio 1917, 15 mesi di guerra in cui il futuro duce sperimenterà la vita del soldato al fronte, sebbene con lunghe pause dovute ai suoi congedi per malattia o per le ferite riportate durante un’esercitazione finita male (pause che alimentarono il chiacchiericcio sulla vigliaccheria di Mussolini e di un certo interventismo entusiasta della guerra, e che costituiscono uno degli spunti alla redazione in presa diretta del diario in questione). Lo stile in qualche modo realista della narrazione, quelle «pagine di verità senza letteratura» che caratterizzano il diario, rappresentano un unicum della produzione mussoliniana. La prosopopea retorica del Mussolini tanto socialista quanto in seguito duce del fascismo trovano in queste pagine una parentesi interessante, quasi che la vita nelle trincee disattivi sul nascere la vena polemica e sopra le righe che caratterizza al contrario tutto il resto degli scritti e discorsi del capo del fascismo. Interessante è la lunga (più di cento pagine) introduzione di Campi. Secondo il curatore, «l’intenzione pubblica primaria di Mussolini nello scrivere questo diario sembra essere stata quella, più che di costruirsi un’aura da eroe e da capo, di dare sostegno alla causa interventista e, sul piano personale, di togliersi di dosso la nomea di vigliacco che rischiava di affossarlo politicamente». In effetti, uno dei problemi interpretativi che per lungo tempo hanno segnato la riflessione sul diario è stato quello di leggerlo col senno del poi, cioè con la consapevolezza storica della vicenda di Mussolini successiva alla Grande guerra. Eppure gli anni tra il ’15 e il ’17 costituiscono per Mussolini un limbo politico: rotti i ponti col socialismo ufficiale, la sua parabola politica era tutta in divenire, e la piega che avrebbe preso successivamente difficilmente poteva essere ricavata dalla lettura del suo giornale di guerra. Certo, il futuro duce aveva primariamente uno scopo pubblico e politico nel redigere un diario tutt’altro che personale o intimistico. Come rileva Campi, «ciò che attraverso il diario si voleva contribuire a smentire era l’esistenza di un clima d’ostilità da parte della massa dei combattenti (non solo quelli di matrice neutralista) nei confronti degli interventisti, dei volontari e degli irredentisti». In effetti è questa la contraddizione principale che prende vita nel diario e più in generale nell’Italia dell’epoca. Quella di un interventismo che seppe imporsi politicamente come «novità» capace di spezzare lo stanco predominio notabiliare del giolittismo, ma che non riuscì a convincere quella massa di soldati che nelle trincee continuava a morire senza un vero scopo. Lungi dal cavalcare un sentimento collettivo e popolare, l’interventismo si scontrò con la durezza fisica e morale di una carneficina senza precedenti. Il diario mussoliniano serviva allora a certificare un idem sentire tra popolo in guerra e interventismo. Un intento che, se fallì a livello di massa, ebbe modo di egemonizzare la decrepita politica liberale sancendone la traumatica fine.
di Alessandro Barile
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