Da Il Giornale del 22 gennaio
Una riflessione fondamentale sull’inestricabile rapporto tra politica e potere (e tra potere e conoscenza) viene offerta da Raimondo Cubeddu con L’ombra della tirannide. Il male endemico della politica in Hayek e Strauss (Rubbettino, pagg. 325, euro 24). Cubeddu ricostruisce criticamente, con un notevole apparato bibliografico, anche buona parte del dibattito che, sul tema, a partire dagli anni Quaranta del Novecento, si è svolto tra alcuni dei più importanti filosofi novecenteschi dell apolitica appartenenti a una vasta e problematica area in cui si sono mossi soprattutto liberali e conservatori: Ludwig von Mises, Karl Raimund Popper, Eric Voegelin, Bruno Leoni, Michael Oakeshott (e molti altri).
Friedrich Von Hayek e Leo Strauss convergono, pur da posizioni diverse, nell’idea che, a partire da Machiavelli e da Cartesio, la modernità abbia preso una strada sbagliata perché dimenticando la lezione dei classici – e la riflessione di Strauss sulla tirannide muove appunto da una sofisticata analisi del Gerone di Senofonte – quando si è trovata dinanzi al totalitarismo non è stata in grado di capire che non si trattava del compimento della storia nello «Stato universale ed omogeneo» teorizzato da Alexandre Kojève, bensì del peggior tipo di regime politico ipotizzabile. Influenzata pesantemente dallo storicismo e dallo scientismo, la filosofia politica moderna ha dunque, per i due pensatori, dato vita a un prometeismo dell’umano privo di ogni senso del limite e perciò alla credenza che l’uomo sia in grado di darsi ogni meta, che possa conquistare tutto, che abbia diritto a tutto .In questa presunzione fatale – così viene sintetizzata da Hayek – è possibile vedere per Strauss la conseguenza di una convinzione erronea: quella secondo cui il progresso della conoscenza avviene grazie all’oblio della tradizione classica che aveva già descritto per noi gli «orrori del nostro tempo».
È in questo processo che, a giudizio di Hayek e Strauss, si sono affermati all’inizio del XX secolo i due maggiori nemici filosofici della libertà. Scientismo e storicismo sono le due formulazioni che hanno dato il via ad una paradossale convivenza, il relativismo e l’assolutismo. Lo storicismo (iniziato da Hegel e concluso da Heidegger) con la convinzione di potere cogliere le leggi storiche, laicizzando così l’antico disegno cristiano della Provvidenza, fino a sfociare, con il marxismo, nell’idea della fine della storia; lo scientismo con la certezza riguardante l’invincibilità del sapere scientifico, come viene sanzionata dall’ apodittica asserzione degli esponenti del Wiener Kreis (il Circolo di Vienna): Hans Hahn, Otto Neurath e Rudolf Carnap, secondo cui «la concezione scientifica del mondo non conosce enigmi insolubili». Nasce così, da questa erronea premessa filosofica, ovvero da questo tragico abuso della ragione (ancora Hayek), la successiva convinzione, irrimediabilmente totalitaria, di poter pianificare e dirigere tutta la vita sociale ed economica, e dunque la vita stessa degli individui. Di qui la volontà politica volta ad assegnare un ruolo decisivo nella formazione umana ad un ente superiore, lo Stato, fino a divinizzarlo; idea che di fatto accomuna fascismo, nazismo e comunismo, e anche, sia pure in misura minore, quella democrazia «progressiva» abbacinata dalla superstiziosa credenza della superiorità morale del pubblico sul privato, del collettivo sull’individuale; una credenza destinata ad un inevitabile fallimento perché nessun potere dispone di tutta la conoscenza necessaria per dirigere e controllare la società. Come argomenta Cubeddu, la consapevolezza del carattere endemico del pericolo totalitario impone una risposta completamente opposta, basata sulla consapevolezza dei limiti della ragione e perciò del fatto che la politica non potrà mai realizzare tutti i fini e soddisfare tutti i bisogni degli individui: è necessario, dunque, cambiare strada, puntando sulla ricerca di argini invalicabili al potere politico. Questa strada è il mercato perché, attraverso la logica dello scambio, esso costituisce il solo mezzo in grado di produrre una quota di conoscenza generale più grande di quella ottenuta da qualsiasi economia pianificata. Il mercato esalta, a beneficio di tutti, la diversità dei talenti perché si adegua in continuazione alle mutate condizioni della vita materiale e alle differenti aspettative individuali e sociali.
di Giampietro Berti
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