Da Città Nuova (Roma) del 11 giugno
Secondo Fulco Pratesi, «il maggiore attuale cantore della natura e dei paesaggi dell’ancora tupenda Calabria» è Francesco evilacqua, autore di una guida storico-naturalistica ed escursionistica edita da Rubbettino e dedicata a una delle meraviglie di questa regione: Il Parco Nazionale del Pollino, ovvero il “Parco dei parchi”. Un nome che ben si addice alla più grande area protetta non solo d’Italia, ma d’Europa: si estende, infatti, per 182 mila ettari, raggiungendo con alcune propaggini la Lucania. La sua istituzione, nel 1993, è stata il risultato di una lunga battaglia che ha visto proprio Bevilac qua tra i principali animatori. Da poco in Calabria, ho avuto modo di conoscere questo avvocato civilista, escursionista, scrittore, giornalista e fotografo naturalista per passione, attivo nel volontariato ambientalista con le maggiori associazioni del settore, che vive a Lamezia Terme, a qualche chilometro da dove abito io. Ne è sortito l’invito ad una escursione nel Parco avendo come guida d’eccezione lo stesso Bevilacqua. L’itinerario scelto, adatto per principianti come me, parte da Colle Impiso, nel comune di Viggianello, e conduce al centro della grande conca dei Piani di Pollino, per poi proseguire verso la grande Porta del Pollino e Serra delle Ciàvole. È il più classico e frequentato (soprattutto d’estate), percorribile in mezza giornata. Niente di meglio per raccogliere durante il percorso gli elementi per un articolo. È un susseguirsi di scenari estremamente variegati, tra sentieri, ruscelli, vallette, conche, fitti boschi, creste, pietraie. Lentezza di gesti e parole misurate seguono le mie iniziali domande a raffica. Cosa c’è da spiegare? Il Parco va “vissuto”. Basta guardarsi intorno, arrendersi alla bellezza che assale da tutte le parti. Per abituarmici quasi, per non “consumarla” in un impeto di possesso, trovo utile fissare l’attenzione – almeno per ora – più che sull’insieme del paesaggio, su uno scorcio, su un particolare alla volta, per meglio apprezzarlo: un roccione dalla forma particolare, un lembo di faggeta, l’occhio luminoso di una radura che interrompe la penombra boschiva, un mormorio nascosto di acque, un’orchidea spontanea scoperta in mezzo alle felci, il roteare in alto di una poiana dal verso lamentoso alla ricerca di una preda… Dopo forse quattro ore di marcia, raggiungiamo la sommità di un rilievo piatto dominato da diversi esemplari dei famosi pini loricati. Mi accosto con rispetto a uno di questi monumenti del mondo vegetale: tutto contorto con i suoi rami spezzati, sembra reduce da chissà quali lotte titaniche. Per riprender fiato appoggio una mano sulla scabra corazza del suo tronco, aspettandomi quasi di sentir pulsare la vita. Bevilacqua mi guarda in silenzio, con un sorriso di approvazione. Forse sto entrando in sintonia con lui.
Qual è la sua idea di camminare in montagna?
«Conoscere un territorio intimamente e con rispetto, cercando sia le vecchie vie della mobilità storica sia nuove vie escursionistiche, riscoprendo luoghi densi di bellezza e di memoria, lasciandomi guidare dalle mie intuizioni e, come unici ausili tecnici, dalla bussola e dalla cartografia. L’escursione, per me, non è e non sarà mai un gesto atletico fine a sé stesso, ma, piuttosto, uno strumento di conoscenza, di arricchimento interiore, una sorta di pellegrinaggio-preghiera o, in termini laici, un voler rendere omaggio alla bellezza della natura. Nello stesso tempo, camminare in montagna – nelle “mie montagne” (laddove “mie” significa che io appartengo a loro e non viceversa) – mi aiuta a riscoprire me stesso, le mie radici, il filo che mi lega ai miei antenati, a un mondo in rapido dissolvimento e del quale, come voleva Corrado Alvaro, cerco di serbare quanta più memoria possibile. Solo la lentezza, che era una caratteristica di quel mondo che quasi non c’è più, può aiutarci a capire e a riscoprire. Solo la lentezza del camminare può ridare la vista ai nostri occhi troppo abituati a guardare senza realmente vedere».
Ed è per questo che lei ha coniato il termine di “escursionismo claustrale”?
«Ah, sì! (ride). Come dicevo prima, mi piace andar per monti con pochi amici, procedere lento e in silenzio, assaporare ogni scorcio, ogni rumore, ogni profumo, condividere emozioni senza troppo bisogno di spiegazioni, camminare ansimando, flottando vapore, grondando sudore, come il salmodiare di un monaco nel chiostro. Con la bellezza tutt’intorno a me ma anche dentro di me. Con il non senso della frenetica bolgia della vita che quotidianamente si agita intorno a me cancellato dal senso vero della “vita”».
Lei ha dedicato otto libri alle bellezze naturalistiche della Calabria. Fulco Pratesi ha definito il suo ultimo libro «un sublimato di decenni di passione, ricerche e soprattutto escursioni». Infatti, a una parte dedicata al quadro geografico, alla storia (a cominciare dal Paleolitico), ai problemi di conservazione e sviluppo, alla flora e alla fauna, segue quella dedicata alle escursioni (ben 152, se non sbaglio, sono gli itinerari descritti, con varie scale di difficoltà…). Immagino perciò che questa guida del Pollino abbia avuto una gestazione molto lunga…
«Sì, è vero: per scrivere di questo Parco nazionale, la cui estrema diversificazione di ambienti e di paesaggi non ha confronti con altri parchi d’Italia e d’Europa, sono stati necessari 33 anni di escursioni e letture. A questi vanno aggiunti quasi tre anni per riordinare materiali, verificare percorsi, procedere alla stesura di testi di una certa complessità. Anche perché all’inizio di questa avventura non esistevano itinerari segnati e pochi erano quelli descritti… Ma una cosa è certa: per conoscere il Parco del Pollino non basta una vita».
Ha accennato a letture fatte. Di che si tratta? Può essere un suggerimento anche per chi si accinge a conoscere, o desidera conoscere più a fondo, il Pollino.
«Mi riferivo a letture sulla storia, l’antropologia, le tradizioni delle comunità locali. Ho consultato inoltre testi di narrativa e poesia: i narratori e i poeti, infatti, riescono a trasmettere il “senso dei luoghi” molto più che gli storici o i geografi, perché leggono nel profondo, oserei dire nell’animo dei luoghi. Ho anche voluto farmi accompagnare in questo viaggio dalle impressioni e dalle descrizioni dei viaggiatori stranieri transitati attraverso le terre del Pollino. Anche loro, per quanto forestieri, hanno saputo restituirci immagini di questo straordinario mondo sospeso nel tempo, che pochi osservatori locali sono riusciti a fornire».
E oltre alle escursioni e alle letture?
«Ho fatto ricorso, talvolta, a informazioni di pastori, contadini, cacciatori (quando la caccia era ancora aperta) adeguatamente filtrate e interpretate sulla base della mia esperienza dei luoghi e dei miei studi preventivi Pino loricato millenario (Monte Pollinello). A fronte: Santuario della Madonna delle Armi, incastonato sotto il Monte Sellaro, e (sotto) fiori sulla pendice di Timpa del Principe. Pag. seguente: torrente Argentino. sulle carte. In genere, questa gente non concepisce che si possa andare in natura senza uno scopo utilitaristico (predare la fauna selvatica, raccogliere funghi o qualche altro genere commestibile, cercare pascoli freschi o spazi da coltivare ecc.) ed evitando il più possibile l’uso dei mezzi motorizzati. Spesso si tratta di persone che conoscono pezzi limitati di territorio perché in essi si esplica la loro attività lavorativa e non hanno nessun interesse a esplorarne altri. In certi casi hanno perso il ricordo dei luoghi, la memoria dei vecchi percorsi, il significato dei toponimi, l’immaginario simbolico che i segni distintivi del territorio avevano determinato nelle comunità. Spesso, sia vecchi che giovani, appaiono reticenti se non si dimostra loro di saper parlare lo stesso linguaggio, di comprendere le loro esigenze, se non si è abbastanza chiari su qual è lo scopo della nostra attività. Essi pensano, infatti, che in noi si celi un qualche operatore economico che vuole scoprire chissà quale tesoro prima di loro o credono che il nostro arrivo sarà seguito da altri che finiranno col mettere il naso o col recare danno alle loro attività. Ecco perché, quando cammino tra le montagne e incontro qualche “indigeno”, mi fermo sempre volentieri per rassicurarlo, innanzitutto, delle mie intenzioni, mettendolo a parte del mio programma escursionistico, chiedendo discretamente qualche informazione sul passato e su cosa faceva in montagna un tempo, incoraggiando chi ancora vi lavora e spiegando che un turismo discreto e rispettoso può ridare vita a una nuova fruizione dei luoghi. In genere da questo tipo di incontri si esce sempre arricchiti e commossi, perché la gente che vive lassù sa essere ospitale, schietta e buona, se rassicurata e affrontata con umiltà».
C’è, fra i tanti descritti, un itinerario che lei personalmente predilige, un itinerario del cuore?
«È quello che dalla località Povera Mosca (comune di Orsomarso), risale lungo le gole del torrente Argentino lungo il fondovalle, con possibilità di prolungamento per la cascata e per il Varco della Gatta. La valle dell’Argentino è uno dei luoghi ecologicamente più integri e importanti dell’intero Parco nazionale. È qui che si era inizialmente conservato l’ultimo nucleo autoctono di capriolo appenninico, per poi diffondersi, grazie alla protezione accordatagli, anche in altre zone vicine. Al momento della mia ultima visita erano stati realizzati da poco i ponti per consentire attraversamenti stabili dei diversi guadi necessari per risalire le gole. 30 anni fa si guadava, d’estate, su rudimentali passerelle realizzate gettando tra una riva e l’altra giovani alberi o entrando in acqua direttamente; oppure, d’inverno, con stivaloni di gomma da pesca alti alla coscia. È un itinerario riservato ad escursionisti esperti (non manca un suggestivo tratto a canyon delle gole). Per farlo nella parte priva di attraversamenti stabili, si sconsiglia qualunque altro periodo all’infuori dell’estate. Se non ci si vuol bagnare, ci vogliono gli stivaloni». Prima di rifare il percorso all’inverso, procediamo ancora per un tratto. A una svolta, vediamo salire per una mulattiera un anziano contadino con berretto e barba incolta, uno degli abitanti dei piccoli paesi che costellano il Pollino: veri “eroi” che resistono allo spopolamento dovuto all’emigrazione e alla crisi delle antiche attività agro-silvo-pastorali di queste terre. Bevilacqua si ferma per un saluto che l’altro ricambia. Breve la conversazione, che seguo a fatica per via del dialetto stretto. L’un l’altro si indicano qualcosa in lontananza che non riesco a individuare. Rimango spettatore discreto di un incontro tra due diverse anime del “Parco dei parchi”.
di Oreste Paliotti
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