Intervista a Romina Arena, autrice di “Leggete e moltiplicatevi. Manuale di lettura consapevole”: “Approfondisco il tema della letteratura come pedagogia e provocazione, come strumento che conduce a livelli sempre più sottili e profondi di conoscenza. Leggere in maniera consapevole, infatti, è avere una percezione globale della storia nella quale ci si immerge. Significa permettere alle parole che leggo di penetrare in profondità dentro di me, scuotere le acque placide della mia interiorità”
Insegnante di scrittura creativa, impegnata in corsi di formazione e laboratori di lettura, Romina Arena ha da poco pubblicato per la casa editrice Rubbettino, Leggetevi e moltiplicatevi. Manuale di lettura consapevole (196 pagine, 14 euro). Frutto di ciò che ha imparato e che ha insegnato. La sua è una proposta metodologica per la condivisione e la moltiplicazione dell’esperienza di lettura. Ed è proprio lei a svelarci i segreti del suo testo.
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Romina, da cosa nasce l’esigenza, o forse sarebbe meglio dire l’urgenza, di scrivere un manuale di lettura consapevole?
«Nasce dal bisogno di condividere in maniera più ampia e capillare il lavoro fatto e le riflessioni maturare in dieci anni di laboratori di lettura consapevole e corsi di formazione sull’utilizzo pedagogico e trasversale della letteratura e della lettura. È la proposta di un approccio esperienziale alla lettura, di un ritorno a un rapporto più intimo e confidenziale con la letteratura. Nasce quindi anche dal desiderio di ridurre la distanza tra le persone e le storie, suggerendo che la letteratura non è quella dea che in molti ambienti si usa porre su un piedistallo di cristallo, scollandola dalla realtà della quale si nutre, ma è – appunto – incarnazione di quella stessa realtà e quindi contenitore che custodisce la mia vita e la tua vita che – proprio per il fatto di essere insieme di fatti, e quindi narrazione di storie – sono letteratura non meno di Tolstoj e di Hugo. Nel mio saggio provo a tracciare una linea di ragionamento attraverso la quale spiego che cosa significhi questo per me; che cosa significhi essere buoni lettori e lettrici; il valore della lettura come atto privato – di crescita e scoperta di sé attraverso l’affinamento dello sguardo interiore – e come atto pubblico – la crescita interiore che porta ad un accrescimento dell’impegno civico, del senso critico, della lettura analitica della realtà, dell’attualità, della storia, della politica e dell’economia. Lungo questo percorso approfondisco il tema della letteratura come pedagogia e provocazione, come strumento che – attraverso l’inquietudine, la curiosità e l’esperienza – conduce a livelli sempre più sottili e profondi di conoscenza (interiore ed esteriore); della lettura come pratica che include l’esercizio dello sguardo, dell’ascolto e del silenzio e che ha senso solo se alla quantità di libri letti preferiamo la qualità della nostra esperienza di lettura. Nella seconda parte i lettori troveranno un compendio sull’animazione dei laboratori di lettura consapevole, non una sezione strettamente tecnica, ma una proposta metodologica per la condivisione e la moltiplicazione dell’esperienza di lettura, un modo per declinare l’atto privato in atto pubblico, di comunità».
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Leggere in modo consapevole è una tecnica, un percorso? Cioè la lettura consapevole è qualcosa che si può imparare?
«Leggere in modo consapevole è un’attitudine alla quale ci si può esercitare. Non esistono regole per leggere, esiste però il modo in cui ci disponiamo alla lettura. In Leggete e moltiplicatevi suggerisco un’esperienza immersiva nella quale ad essere coinvolta non è solo l’attività cerebrale (e quindi l’attenzione), ma tutto il corpo coi suoi cinque sensi. Leggere in maniera consapevole, infatti, è avere una percezione globale della storia nella quale ci si immerge. Il fatto che un libro non spanda odori non significa che quegli odori non esistano e non significa che io non possa percepirli. Leggere in maniera consapevole significa permettere alle parole che leggo di penetrare in profondità dentro di me, scuotere le acque placide della mia interiorità, operare una maieutica che riveli e dia nome a cose che mi porto dentro in maniera confusa. Significa anche cogliere il valore simbolico dei dettagli, ripercorrere a ritroso quell’iceberg di cui parlava Ernest Hemingway nella sua teoria. Il modo per educarsi alla lettura consapevole è semplice: trovarsi un angolo silenzioso e comodo, spegnere cellulari e dispositivi, informare chi vive in casa con voi di quello che vi state apprestando a fare, iniziare a leggere un brano di romanzo o un racconto (in Leggete e moltiplicatevi offro molte esperienze guidate del genere) lentamente, lasciandovi attingere dalle parole. Man mano che leggete prestate attenzione alle emozioni che percepite, cercate di dare loro un nome. Quando avete finito di leggere, appuntate su un quaderno tutto ciò che vi ha colpito sia in negativo che in positivo (parole, odori, atteggiamenti, elementi atmosferici), che cosa avete provato, quali fatti personali ha richiamato quello che avete letto. Date al brano il tempo di agire dentro di voi, state con le risonanze che vi ha provocato e con quello che vi ha colpito, lasciate decantare nella vostra mente e nel vostro cuore il frutto di questa esperienza. Ecco cos’è la lettura consapevole: andare oltre. Oltre la trama, oltre la sterile dicotomia bello/brutto e buono/cattivo. Oltre ci aspetta un pezzo di noi che quella storia sta custodendo in attesa del nostro arrivo».
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Una mia insegnante al liceo diceva che l’importante è leggere, non importa cosa: romanzi, saggi, fumetti, perfino le istruzioni di un elettrodomestico… L’importante è abituarsi a leggere, il resto vien da sé. Insomma, niente forzature, niente roba da leggere a tutti i costi per sentirsi un lettore migliore. La lettura come intrattenimento. Ti convince questa “teoria”?
«Mi convince a metà. La letteratura non è intrattenimento. Non lo è nell’accezione goliardica e superficiale del termine. Anche nel momento in cui dovessi scegliere di leggere perché non ho niente altro da fare, devo essere consapevole che dentro quel libro – fosse anche il chick lit che distrugge le classifiche a suon di vendite – c’è una domanda che mi aspetta, una richiesta di posizionamento, una parte da prendere; nutro simpatie e antipatie, piango se il mio personaggio del cuore muore o è ad un bivio esistenziale; mi stupisco delle parole e degli ambienti, insomma, partecipo. Anche se me ne sto stravaccata in poltrona a sorseggiare tè e sgranocchiare biscotti quello che sto facendo è prendere parte a qualcosa, a una vita che non è la mia, ma diventa la mia per opera di questo coinvolgimento. Quando diciamo banalmente “sono rimasta incollata alle pagine” forse non abbiamo ben chiara la rivoluzione che quel libro sta operando dentro di noi, un’opera di seduzione, un esperimento di magnetismo che va oltre il semplice: non ho nulla da fare e allora leggo. No, quel libro ci sta parlando e mentre ci parla – come un incantatore di serpenti – ci ammalia, ci possiede, non possiamo fare a meno di continuare a leggere, non possiamo staccarcene e anche quando ce ne stacchiamo, non vediamo l’ora di ritornare lì sopra, non facciamo altro che pensarci. È intrattenimento, questo? È evasione? No, non lo è: è partecipazione. La metà che mi convince, invece, è quella della tua insegnante. La letteratura è uno spazio infinito e nella sua infinità sta la sua inclusività e in essa – ancora – la sua altrettanto infinita democraticità. Generi, storie, supporti, linguaggi si incrociano e si adattano alle nostre singole vite e alle nostre biografie e con esse parlano una lingua esclusiva non comprensibile da altro orecchio umano. Ecco perché quello che cambia la vita a me, che mi fa vedere oltre, che mi apre un varco, che mi fa fare un’esperienza senza precedenti può non funzionare per altre persone, anzi, quasi sicuramente non funzionerà. Se a qualcuno It fa ribrezzo solo perché c’è un pagliaccio assassino e di quella storia ha colto solo questo dettaglio, a qualcun altro invece l’amicizia e le personalità dei ragazzini coinvolti nella storia possono aver creato un cortocircuito che ha innescato interrogativi, immedesimazioni, riflessioni sul male e l’emarginazione sociale. Per questo è presuntuoso dire cosa vada letto o no, quale libro sia migliore e quale peggiore. Saranno comunque classifiche parziali e soggettive, come è giusto, legittimo che sia, anche se individualmente, privatamente coltiviamo dei gusti che ci rendono ripugnanti alcuni libri e chi li ha scritti».
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Che definizione daresti del termine letteratura, oggi, cosa possiamo considerare letteratura?
«Le definizioni – appunto – definiscono, limitano, circoscrivono. Come posso dare, a qualcosa che narra il mondo e le persone nelle loro continue volubili mutazioni, rovesci rivoluzioni, sfumature, una definizione che la rinserri dentro poche fisse parole, che la delimiti dentro cancelli di vocali e consonanti? Non ci riesco e proprio questa mia incapacità mi offre la possibilità di dire che letteratura è tutto ciò che ci circonda. Mi spiego. In origine, il significato di letteratura era l’arte di leggere e scrivere, cioè l’arte di mettere insieme la conoscenza (il leggere) e la testimonianza (lo scrivere), il racconto e il raccontare. Se allora la letteratura è testimonianza e la testimonianza è ciò che io condivido della mia vita, allora la mia stessa vita è letteratura e anche io sono narrazione. Come si può pensare di dare a un essere umano una importanza minore di questa? La letteratura è ovunque ci sia una narrazione, ovunque ci siano donne e uomini, bambine e bambini, animali che abbiano una storia da raccontare e questa storia diventa la base di una relazione. Ovunque ci si possa chiedere e poi?lì c’è narrazione. Lì c’è letteratura, intorno a noi e dentro di noi».
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Chi ama leggere, sente prima o poi la necessità di confrontarsi con i classici, ma spesso sono letture impervie, difficili, a volte inaccessibili. Quello che vorrei chiederti è: da tuo punto di vista, vale la pena insistere? In altre parole: a cosa serve leggere i classici?
«I classici patiscono una grande ingiustizia e quello che è più paradossale è che subiscono un attacco dall’interno; interno al loro stesso ambiente, intendo. Sono stati smembrati, sovrastrutturati, schematizzati, spiegati, sviscerati con l’anagogia più sfrenata. Sono stati trasformati in un’ombra cinese che un pisello sul comodino lo fa diventare una valanga sul muro. Ne siamo intimoriti perché pensiamo di non esserne all’altezza, che nascondano significati e simbologie a noi impenetrabili; pensiamo che siano noiosi perché appartengono a epoche lontane dalle nostre; perché ci hanno obbligati a leggerli a scuola e ce li hanno presentati come mostri che ci bruceranno le sinapsi a furia di analisi del testo; perché a volte i volumi che abbiamo davanti sono troppo grossi per suggerirci una lettura agevole. Perché leggerli, allora? Per infrangere dei miti, per scardinare dei luoghi comuni. Nei classici c’è l’origine della letteratura e quindi l’origine dell’essere umano, la sua evoluzione, la sua storia. I dilemmi – fossero anche le pene d’amore – sono gli stessi che ci attanagliano ancora oggi. Lì non ci sono soltanto le radici, le tradizioni, le convenzioni delle epoche passate, ma anche le spinte in avanti, gli scalpiti del rinnovamento. Dentro quei romanzi c’è in nuce quello che noi diamo oggi per scontato – per esempio – in termini di lotta e autodeterminazione (leggete Jane Eyre), e dietro quei romanzi ci sono vite che si sono spinte oltre quello che il tempo in cui vivevano permetteva loro (Mary Shelley, per esempio, che scrisse Frankenstein). C’è un che di rivoluzionario in tutto questo, una spinta, un fragore che ancora non cessa di creare boati ed echi. Ed è per questo che dovremmo leggerli: perché non siamo persone qualunque. Dovremmo ardentemente desiderare di non esserlo. Essere persone qualunque equivale ad essere servi del primo padrone che passa. I classici ci educano a non cadere in questa facile tentazione, ci mettono le antenne per intercettare l’inganno, la trama eversiva tessuta contro la nostra indipendenza di pensiero. Virginia Woolf dice: “Abbiamo bisogno di tutto ciò che possiamo aver imparato leggendo i classici per giudicare il lavoro dei nostri contemporanei, perché quando in loro c’è vita, essi gettano le reti su abissi sconosciuti per intrappolare nuove forme, e noi dobbiamo proiettare le nostre migliori aspirazioni su di loro se vogliamo accogliere con una certa cognizione gli strani doni che ci portano a galla”».
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Un romanzo che esalta l’approccio consapevole alla lettura è certamente “Leggere Lolita a Teheran”. Altri suggerimenti in merito?
«Non ho un suggerimento specifico. Tutta la buona letteratura esalta la lettura consapevole; tutta quella letteratura, intendo, che non ammicca, che non cerca scorciatoie, che non si fa ingoiare facilmente. Quella letteratura che ci impone la lentezza – un’azione in controtendenza rispetto alla vorticosità della nostra epoca – e quindi ci obbliga a stare con quello che c’è e una volta esperito quello che c’è, ci apre la porta più piccola attraverso la quale passare e scoprire un mondo che non immaginavamo esistesse. I miei capisaldi – i libri chiave per aprire quella porta – sono stati La Recherche di Marcel Proust, perché ha bisogno di silenzio, solitudine e concentrazione e dà un paio di occhiali potenti per vedere i dettagli piccoli e piccolissimi, difficilmente visibili con occhi comuni; Il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas, perché è stato il primo romanzo a tenermi sulla corda, a rivelarmi quello spartiacque tra intrattenimento e impegno, ad avermi svelato cosa voglia dire veramente leggere e sentire nostalgia della storia quando la si è finita; Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, perché mi ha insegnato la dissidenza, la reazione, la responsabilità delle scelte insindacabili, l’essere critica in nome di un amore posto come il più alto degli ideali; Moby Dick di Herman Melville, perché mi ha insegnato la frattura tra i prima e i dopo, la necessità di spingersi oltre e che l’essere umano è fatto di infinito e di mistero e proprio per questo non può smettere di camminare, interrogarsi, ingaggiarsi nell’antagonismo tra bene e male, non essere spettatore passivo della vita che gli si srotola davanti; Morte di Adamo di Elena Bono, perché ho imparato molto di me, della mia ricerca spirituale, del dolore e del senso dell’attesa; Jane Eyre di Charlotte Brontë, perché quando ho finito di leggerlo, a più di 30 anni, mi sono detta che se lo avessi letto tra i 15 e i 16 anni forse mi sarei sentita meno sola e irrecuperabile».
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Per chiudere, parlando un po’ di te: hai un genere preferito? C’è un autore di cui hai letto tutto?
«Mi innamoro continuamente di una suggestione, di un genere, di una scrittura. Nel tempo ho avuto la sensazione di avere autori o autrici del cuore, ma questa è la domanda che – sia come lettrice che come educatrice – ho sempre temuto più di tutte perché non ho una risposta definitiva. Sono molto intemperante e volubile, più del nome di chi scrive mi seduce quello che mi resta alla fine, lo stato d’animo nel quale una storia mi lascia, il sentimento residuale al quale soggiaccio per lungo tempo. Non ho certezze nella vita, non credo nel per sempre e il mio orientamento dentro la letteratura segue questa geometria variabile. Non ho autori e autrici che preferisco in assoluto. So però di avere un debole per la distopia, perché è il genere che più mi aiuta a leggere e capire il mondo, che ha sempre un legame d’acciaio con la realtà e l’attualità e – a dispetto della propaganda disfattista e denigratoria – offre sempre una soluzione costruttiva e mai moralista e in cui l’eroe e l’eroina sono le persone che non ti aspetti (Montag in Fahrenheit 451 ne è un esempio). So anche di avere letto tutto John Fante, Luis Sepúlveda e Gabriel García Márquez (ma non sono loro i miei autori preferiti) e di centellinare con l’angoscia dell’avara i romanzi di Bernard Malamud (e forse potrebbe essere lui uno dei miei autori preferiti). So che resto ammutolita per giorni dopo aver letto un racconto di Flannery O’Connor, Varlam Šalamov o Clarice Lispector; un romanzo di Toni Morrison, Paul Lynch o Fleur Jaeggy. So che mi sento a casa quando leggo Il Signore degli Anelli, quando ritorno su Dracula, quando inciampo in un verso di Gregory Corso o Adam Zagajewski, quando aprendo a caso una poesia di Alda Merini rinnovo l’alchimia di una filiazione. C’è un perché? Sì, penso la rassicurante, intima consapevolezza che ci sarà sempre un mistero che mi supererà, una risposta che continuerò a cercare. E penso anche le vite minute, un senso confuso di malinconia, la compassione, un senso profondo e impronunciabile di decadenza, fallimento, una scrittura mitocondriale ora nostalgica ora ruvida di cinismo. E la poesia sottile che tiene a galla tutto».
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