Da Il Giornale di Sicilia del 13 giugno
Non è facile dire se la crisi di valori che ha attraversato l’Europa trasversalmente avrebbe avuto minori effetti se l’unione politica avesse preceduto quella monetaria. Non è facile neanche dire se la crisi economica sarebbe stata meno dura se l’Europa avesse completato l’unione politica prima di quella monetaria. Ma possiamo affermare che la crisi economica e sociale, senza l’unione monetaria, sarebbe stata assai più violenta ed avrebbe avuto indubbi, ancor più gravi, effetti di conflittualità e di instabilità. Nel maggio del 1998, alla vigilia dell’introduzione della moneta unica, Padoa-Schioppa scriveva: «La capacità di politica macroeconomica (dell’unione economica e monetaria europea) è, salvo che per la moneta, embrionale e sbilanciata (…) Per la Banca centrale europea la vera insidia non sarà la poca indipendenza, ma la troppa solitudine (…) operare quasi nel vuoto, senza un potere politico, una politica di bilancio, una vigilanza bancaria, una funzione di controllo dei mercati finanziari. (…) Ha dunque ragione non solo chi applaude il passaggio di ieri, ma anche chi ne rileva l’ incompiutezza, i rischi, la temerarietà». Come ogni disegno complesso, anche la storia europea è fatta di luci ed ombre, di pieni e di vuoti, di brusche frenate e coraggiosi salti in avanti: in questi anni molti progressi sono stati fatti; ma anche molti obiettivi sono stati mancati. Ma una cosa è certa: domandarsi ossessivamente quale dovesse essere la giusta sequenza, l’ordine perfetto con cui ordinare le tessere del mosaico europeo, è un esercizio oggi privo di concretezza e, quindi, di utilità pratica. Quindi occorre guardare avanti, critici verso gli errori ed i limiti riscontrati, soddisfatti per ciò che è stato fatto, per ciò che abbiamo contribuito a realizzare, ma convinti che si possa fare più e meglio. Il cancelliere Helmut Kohl sosteneva che «l’unione politica è la contropartita indispensabile per l’unione economica e monetaria (…). È fallace pensare si possa sostenere l’unione economica e monetaria in modo permanente senza unione politica». Il Rapporto che ha fornito la base per il Trattato di Maastricht affermava che l’Unione economica e monetaria avrebbe bisogno di «un alto grado d’integrazione delle politiche economiche (…) in particolare nel settore fiscale». Occorre recuperare in pieno la nitida visione strategica dei padri fondatori dell’Europa come Luigi Einaudi che nel tragico 1944 scrisse: «Il disordine attuale delle unità monetarie in tutti i Paesi del mondo, le difficoltà degli scambi derivanti dall’incertezza dei saggi di cambio tra un Paese e l’ altro e più dalla impossibilità di effettuare i cambi medesimi, hanno reso evidente agli occhi di tutti il vantaggio che deriverebbe dar adozione di un’unica unità monetaria (…) dappertutto in Europa, (…) quanta semplificazione, quanta facilità nei pagamenti, nei trasferimenti di denaro, nei regolamenti dei saldi! (…) Il vantaggio del sistema non sarebbe solo di conteggio e di comodità nei pagamenti e nelle transazioni interstatali. Per quanto altissimo, il vantaggio sarebbe piccolo in confronto di un altro, di pregio di gran lunga superiore, che è l’abolizione della sovranità dei singoli Stati in materia monetaria. Chi ricorda – aggiungeva Einaudi – il malo uso che molti Stati avevano fatto e fanno del diritto di battere moneta non può aver dubbio rispetto alla urgenza di togliere ad essi cosiffatto diritto. Esso si è ridotto in sostanza al diritto di falsificare moneta (…). E cioè – continuava Einaudi – al diritto di imporre ai popoli la peggiore delle imposte, peggiore perché inavvertita, gravante assai più sui poveri che sui ricchi, cagione di arricchimento peri pochi e di impoverimento per i più, lievito di malcontento per ogni classe contro ogni altra classe sociale e di disordine sociale. La svalutazione della lira italiana e del marco tedesco – sottolineava Einaudi -, che rovinò le classi medie e rese malcontente le classi operaie fu una delle cause da cui nacquero le bande di disoccupati intellettuali e di facinorosi che diedero il potere ai dittatori». Insomma, nel ventunesimo secolo ci troviamo a dover risolvere una crisi «nell’Europa» e non «dell’Europa».
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