Da La Croce Quotidiano del 23 marzo
Il sociologo Giuseppe De Rita denuncia sommessamente i “pericoli del decisionismo” cui la politica italiana sta portando il Paese. Dalle colonne del “Corriere della Sera” lancia un appello: “servono corpi intermedi per calare sul territorio le scelte del potere centrale”. “Da qualche anno si parla spesso della crisi dei corpi intermedi” scrive De Rita. Lo sforzo di ristabilire il primato della politica ha portato infatti a verticalizzare il potere in poche sedi decisionali; a declassare il concetto della mediazione e la prassi della concertazione; a diroccare tutti i soggetti che per tradizione rappresentano vecchie e nuove istanze di mediazione (i sindacati, i partiti, le rappresentanze imprenditoriali, il sistema camerale, le amministrazioni provinciali, ecc.)”.
Di fronte a questo “processo di disintermediazione” e del “conseguente sfoltimento della boscaglia intermedia”, De Rita richiama l’attenzione su un aspetto che molti tendono a sottovalutare: “c’è un deficit di dimensione intermedia anche nella dilagante verticalizzazione del potere pubblico”.
Che cosa intende? “Il decisionismo politico porta certamente al primato del comando; ma questo rimane nullo senza una catena di comando che trasmetta alle strutture amministrative e alle periferie del sistema le opzioni di vertice. È questo il pericolo su cui si stanno avvitando il potere politico e lo Stato italiano. Ad un progressivo accentramento delle funzioni di governo in alcune sedi di vertice (forse in una sola) si accompagna infatti una altrettanto progressiva povertà dei meccanismi attuativi in cui incanalare la politica”.
Nella sua breve analisi, De Rita spiega meglio: “Alcuni apparati ministeriali in pratica esistono ormai solo di nome, vuote macchine senza identità; altri sono in grave stato di frustrazione identitaria, talvolta anche professionale; intere macchine burocratiche sono presidiate da personale contabilizzato «a giornata» da alcune grandi società di consulenza e quindi senza alcuna possibilità di professionalizzazione e di carriera; non cresce quindi nessuna classe dirigente capace di progettare e portare avanti nuovi compiti o nuovi assetti d’azione pubblica; e il complessivo vuoto di potere e di controllo che ne discende crea una diffusa deresponsabilizzazione – e talvolta anche pericolose devianze – nei comportamenti dei singoli. Magari i giornali sottolineano le devianze più clamorose, ma è il deserto delle responsabilità intermedie che le rende possibili”.
E affonda il dito nella piaga: “In questo deficit di trasmissione dettagliata del comando politico, la volontà politica resta un potere nudo, spesso di puro annuncio, senza seguito concreto. Qualcuno, anche su queste colonne (da Ainis a Cassese), arriva a dire che lo Stato non c’è più; altri (il presidente Boeri) prevede il default dei servizi Inps a causa della consunzione dei quadri medio-alti; ed altri ancora (antichi o aspiranti sindaci a Roma) avvertono che nessuno si illuda di governare la città con l’attuale inerte burocrazia capitolina. Gli esempi potrebbero continuare, ma bastano quelli citati per capire che mentre tutti ce la prendiamo con la mancanza di legalità negli apparati pubblici, la crisi vera sta nel fatto che quegli apparati non funzionano, quasi non esistono più”.
E così conclude De Rita: “Non si fronteggia tale deserto nel cuore dello Stato affollando poche stanze di vertice, con il rischio di ulteriori deresponabilizzazioni intermedie. Meglio sarebbe prendere atto che ogni società e struttura complessa vive di efficienza intermedia. Ce lo dice anche il mondo delle imprese (anche quelle più personalizzate al vertice), dove l’attenzione è spasmodica verso quei dirigenti e quadri chiamati a trasmettere gli impulsi e i comandi dall’alto, ma anche a creare quel tessuto di relazioni di reciprocità senza il quale nessuna organizzazione può vivere. Se partissimo da tale fenomenologia potremmo fare un esame di coscienza sulle polemiche fin qui andate di moda e recuperare un po’ di dimensione intermedia, nella società come nello Stato”.
“Non mancheranno crisi presso tutti gli Stati moderni, non mancheranno contrasti di interessi e di classi; non finiranno le difficoltà dei disoccupati e degli emigranti; vi saranno sempre fannulloni e parassiti; il valore di un popolo e il merito dì un governo sarà quello di provvedervi in tempo e di formare quelle zone di solidarietà umana e cristiana dove si sentirà meglio il calore di una moralità della vita cristiana”: Luigi Sturzo scriveva queste parole nel 1959. Ben prima della “questione morale” dei tempi di Berlinguer, il sacerdote fondatore del Partito Popolare Italiano richiamava la funzione della politica a “formare quelle zone di solidarietà umana e cristiana dove si sentirà meglio il calore di una moralità della vita cristiana”. Lo diceva dai banchi del Senato con forza e convinzione, come si può leggere nel bel volume “Servire non servirsi. La prima regola del buon politico” (Rubbettino editore), in cui sono raccolti un intervento al Senato, 12 articoli e tre lettere scritti fra il 1946 e il 1958 dal sacerdote e statista.
Tempi diversi. Eppure le parole del sacerdote di Caltagirone suonano attuali come non mai: c’è bisogno di una presenza matura dei cristiani nella vita sociale e nella politica del nostro Paese. Oggi (forse) più che mai.
Il “decisionismo” cui assistiamo nella politica di oggi non può che lasciare inquieti, perché in gioco c’è il “patto sociale” su cui si fonda una comunità, un territorio, un Paese. E quando si sgretola per fattori esterni ed interni è a rischio la convivenza. Salta, cioè il “perché” e il conseguente “modo” dello stare assieme. “Farà meraviglia certo agli spiriti superficiali e ai liberali dello stampo classico, sentire che oggi il problema più significativo e l’elemento di contrasto si basa sopra una ragione di libertà. E non è certo di una libertà formale o esteriore che intendo parlare, ma di una libertà intima e sostanziale che pervade il corpo sociale”. E’ il 17 novembre 1918 quando don Sturzo pronuncia queste parole in un convegno a Milano. Dopo la devastazione della Grande Guerra qual è il punto da cui ripartire? Don Sturzo non ha esitazioni: il fattore di rinascita dopo l’inutile strage” che è stata la “grande guerra” è la libertà della persona e della società.
Ma qual è dunque il più grande pericolo per questa libertà? Risponde Sturzo: “La concezione panteistica dello Stato moderno”. Siamo solo alla fine del 1918; ancora dovevano iniziare, ovvero erano ai primissimi esordi, le rivoluzioni che avrebbero portato negli anni ’30 o ’40, agli stati totalitari fascisti, nazisti o sovietici.
Cosa intende, dunque, Sturzo quando parla di concezione “panteistica” dello stato?
“Tale concezione panteista è penetrata, dove più dove meno, in tutte le nazioni civili a base liberale e democratica e nel pensiero prevalente della filosofia del diritto pubblico; e quelle che hanno maggiormente contrastato le finalità religiose della chiesa, hanno sostituito, nella negazione di ogni problema spirituale collettivo, una nuova religione laica, quella dello stato sovrano assoluto, forza dominatrice e vincolatrice, norma e legge morale, potere incoercibile, sintesi unica di volontà collettiva”.
“E’ lo stato – prosegue don Sturzo – che diviene la nuova religione: unica fonte di riferimento morale, unico soggetto legittimamente autorizzato a trovare la sintesi delle domande sociali collettive. È lo Stato “padrone” della società. Certo, quando nel 1918 Sturzo fa queste affermazioni ha alle spalle l’esperienza di uno stato liberale pesantemente anticlericale e, soprattutto, è ancora aperta la questione del “romano pontefice”.
Ma – mutatis mutandis – non cambiano le ragioni. In gioco – anche oggi – c’è “la libertà della persona e della società”. La concezione dello stato “panteista” – oggi – si è modificata geneticamente. Non assistiamo più infatti alle forme tipiche del totalitarismo, ma nuove forme di manifestazione dello medesimo principio. Il “decisionismo” cui fa riferimento De Rita non è che una nuova forma della concezione padronale – dunque totalitaria – dello stato. Per questo motivo, sono saltati completamente i “corpi intermedi” nelle dinamiche e nei processi partecipativi della vita politica. Esistono ancora, ma sono come ininfluenti, anestetizzati e resi residuali da un modo di concepire il Potere che somiglia tanto alle denunce che Pier Paolo Pasolini faceva negli anni ’70 del secolo scorso.
Abbiamo gli anticorpi per reagire? – viene da domandarsi. Io credo di sì. A due condizioni sine qua non. Esiste ad esempio una vasta geografia fatta di associazioni, gruppi e realtà del Terzo Settore e del privato sociale in generale che rappresentano un capitale sociale invidiabile in molte altre parti del mondo. Un tessuto di donne e uomini, di famiglie, di anziani e giovani che nei quartieri di molte città italiane (grandi, piccole e piccolissime) che investono ogni giorno nelle relazioni sociali quali antidoto (o almeno freno) del “decisionismo politico”. Presidi di legalità, luoghi di cura delle persone più in difficoltà, zone strappate all’incuria solidale di una politica auto-referenziata che ha dismesso di investire di servizi i territori (si pensi soprattutto alle tante aree urbane periferiche). Esistono nuove forme di solidarismo sussidiario, nato dal basso per la creatività di persone che non si sono arrese al vuoto e alla penuria di risorse economiche che hanno fatto nascere condomini solidali, esperienze di empori della solidarietà, dove al centro viene rimessa la dignità della persona con i propri affetti e relazioni. Potrei continuare a lungo anche in altri settori del vivere sociale e civile, come ad esempio le numerose esperienze di micro-credito oppure di forme di intervento lavorativo fondate sulla ricaduta sociale, di fondazioni bancarie che mettono in gioco risorse economiche per progetti costruiti, progettati e realizzati dalle forze della societas…
Una infinita rete di piccole e medie esperienze sparse dal Nord al Sud dello stivale che faticano ad avere voce e respiro nazionale. Questi – a mio avviso – sono i germi degli “anticorpi” alla deriva decisionista del potere politico. Al centro di queste esperienze c’è una visione dell’uomo in relazione da sé verso l’altro, della famiglia come miniera di risorse relazionali da fare fruttare nella collettività, una visione del “fare” non sottomessa alle decisioni oligarchiche di pochi, dove il “risultato” non è dato solo dal “cosa si realizza”, ma dal “modo” con il quale ciò che viene fatto produce in termini di relazioni sociali e di attaccamento alle proprie comunità di vita. Al centro c’è il tentativo di recuperare la dimensione comunitaria e collettiva del vivere quotidiano. Non individui che bastano a sé, ma persone che proprio perché tali, hanno bisogno di sperimentare concretamente partecipazione, dono, gratuità: nella fatica di esporsi al rischio, certamente, di non vedere riconosciuto dall’altro l’apertura di relazione. Ma anche nella bellezza di vedere che quando accade possono generarsi formidabili esperienze di aiuto. Penso, ad esempio, alle tante piccole esperienze che stano nascendo di “Social Street” (oggi censite in più di 250 città italiane), dove l’obiettivo è quello di socializzare con i vicini della propria strada di residenza al fine di instaurare un legame, condividere necessità, scambiarsi professionalità, conoscenze, portare avanti progetti collettivi di interesse comune e trarre quindi tutti i benefici derivanti da una maggiore interazione sociale. Coniugando i social con piattaforme virtuali, le esperienze di “Social Street” sono un esempio lampante di generatività.
Non sono certamente tutte esperienze che nascono da una matrice cattolica. Spesso lo sono. Indubbiamente ìl bagaglio “valoriale” da cui partono ha una matrice cattolica – consapevole o meno di tale provenienza.
Questo fermento, tuttavia, da solo non è sufficiente. Occorrono nuovi interlocutori capaci di portare dentro la politica il lievito di un modo differente di interpretare i meccanismi decisionali.
La “questione antropologica” e la conseguente deriva decisionista della politica sono due aspetti dello stesso tema: una visione dell’umano individualista, dove prevalgano solo i desideri che devono diventare diritti a tutti i costi, porta inevitabilmente alla distruzione del “patto sociale” che regge un popolo, una società, una comunità, un Paese.
Non sono i bonus bebè a cambiare le sorti del Paese. O almeno non lo sono da soli. Occorre tornare nei territori, nelle singole comunità, nei singoli comuni e fare un lavoro di comunità. Sapere scovare le risorse umane che lì, in quel comune, in quel quartiere, in quella città operano e saperle valorizzare. Questo è il compito – a mio parere – di quanti si stanno giocando dentro al “Popolo Della Famiglia”.
La prima è fondamentale responsabilità di un cristiano cattolico impegnato nel dibattito pubblico è difendere la libertà della persona di rispondere ai propri bisogni attraverso la dinamica originale di ogni sviluppo umano: la relazione, la creazione di formazioni sociali in cui tali bisogni (educazione, salute, assistenza, commercio) possano trovare espressione.
L’analisi di Sturzo è estremamente lucida e anteveggente: il modo attraverso cui lo Stato diviene “totalitario” è attaccando e disseccando la dimensione “religiosa” propria di ogni uomo. Solo, infatti, la dimensione religiosa rende libera e operante l’energia umana. Solo una reale libertà in atto crea una società vivace e vitale. Solo una società vitale si contrappone al potere dello Stato ed è in grado di “attivare” il principio di sussidiarietà. Luigi Sturzo è uomo che spesso ha cambiato idea su molti temi politici o istituzionali, ma su questo giudizio è irremovibile anche a distanza di anni ed i fatti gli danno drammaticamente ragione.
A questo siamo chiamati, noi cattolici anzitutto, nella politica e in ogni segmento del vivere sociale.
di Davide Vairani
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