Su Angelo Polimeno Bottai, il vicedirettore del Tg1, Gianluca Roselli de Il Fatto Quotidiano ha avuto occasione di malignare la scorsa primavera (leggi qui). Lo spunto glielo ha fornito una lite furibonda tra Bottai e Giuseppe Carboni, il suo direttore di testata, dovuto a motivi di potere interni.Per l’occasione, la firma dell’ex quotidiano d’inchiesta (allora organo governativo in chiave gialloverde e non ancora in salsa giallorossa), si è messa a discettare sull’appartenenza politica (area ex An) e familiare (il nonno fu il celebre Giuseppe Bottai, ministro dell’Istruzione fascista) del vicedirettore dell’ammiraglia Rai e, proprio en passant, ha scritto che Bottai è autore di un libro, Alto Tradimento, dedicato alle privatizzazioni degli anni ’90 e all’ingresso accidentato dell’Italia nell’euro. Quasi a voler sottolineare la matrice sovranista del giornalista romano. Citare i libri altrui senza averli letti per mettere in bocca agli autori intenzioni indimostrate (e spesso indimostrabili) è un esempio da manuale di certo giornalismo all’italiana. Invece, ad approfondire un po’, ci si accorge che Alto Tradimento. Privatizzazioni, Dc, euro: misteri e nuove verità sulla svendita dell’Italia (Rubbettino, Soveria Mannelli 2019) non è altro che la rielaborazione delle memorie di Giuseppe Guarino, che all’età di 97 anni vanta un curriculum di tutto rispetto: già ordinario di Diritto pubblico alla Sapienza di Roma e avvocato amministrativista più che di grido, il prof napoletano ha avuto anche rapporti importanti con la politica, grazie ai quali è stato deputato come indipendente per la Dc nella Decima legislatura, ministro delle Finanze nel governo Fanfani VI (1987) e, ciò che più conta nell’economia del libro di Bottai, ministro dell’Industria e delle Partecipazioni statali nel primo governo Amato (1992-1993), in piena agonia della Prima Repubblica. Proprio da quest’ultima esperienza trae spunto il racconto di Alto Tradimento che, specifica l’autore, «non è semplicemente la biografia di un grande giurista», ma «un’immersione negli abissi di quasi un secolo di vicende italiane, politiche e non». Ciò non toglie, tuttavia, che la parte biografica occupi la maggior parte del volume, magari anche per rafforzare la parte dietrologica del racconto. Dalla penna di Bottai esce un ritratto gradevole di Guarino, che fu un rampollo eccellente di quella borghesia italiana che, a partire dal fascismo, arricchì il Paese di capacità e cultura, grazie a un ascensore sociale che oggi sembra un ricordo. Era l’Italia che consentiva comunque ai figli di nessuno, anche se di agiate condizioni economiche (come nel caso della famiglia Guarino), di diventare padri di qualcuno, cioè di accedere alle stanze dei bottoni sulla base del merito. Al riguardo, val la pena di notare che il Guarino biografato da Bottai non ha parentele col celebre professore di Diritto romano Antonio Guarino. Giovane intellettuale nella Napoli ricca di fermenti culturali della prima metà del ’900, Guarino si laureò in Giurisprudenza alla Federico II nel ’43, mentre la città partenopea soffriva sotto le bombe alleate. Come tanti ragazzi di belle speranze, partecipò alle attività dei Guf (Gruppi universitari fascisti) e si formò sulle pagine di Critica Fascista di Giuseppe Bottai. Su questo passato, comune tra l’altro a molti big della Prima Repubblica (fra questi Aldo Moro), fino a venti anni fa in molti avrebbero avuto a che ridire, a partire dagli ex fascisti (si pensi alle gustose polemiche del compianto Nino Tripodi). Oggi, anche a dispetto dei nuovi tentativi di censura vintage, questi curricula fascisti sono sdoganati dal punto di vista storiografico e occorre considerarli per quello che sono: segni di esperienze importanti di quella classe media che, formatasi nel Ventennio, avrebbe costituito l’ossatura dell’Italia repubblicana e sarebbe stata protagonista del boom. Il Guarino politico, c’è da dire, è tutto sommato minore rispetto al Guarino accademico, protagonista di primo piano della vita istituzionale italiana, grazie alla formidabile rete di contatti propiziata dall’importante ruolo culturale: tra i suoi assistenti fa bella mostra di sé Francesco Cossiga e tra le collaborazioni illustri si citano quella con Guido Carli presso la Banca d’Italia e col cardinale Camillo Ruini. E scusate se è poco. Questi brevi cenni servono a far capire come l’ingresso e la permanenza di Guarino in politica siano avvenuti senz’altro per la porta principale ma sempre in punta di piedi, cioè senza i clamori tipici dei politici di carriera dell’epoca ma sulla base di un ruolo sociale forte, che la Dc, nonostante le sue poche inclinazioni verso la cultura, apprezzava non poco. Proprio questa particolare traiettoria politica consente di capire il ruolo del celebre professore nella fase terminale della Prima Repubblica, in cui i partiti crollavano sotto i colpi del pool di Milano. L’antefatto delle trasformazioni a cui sarebbe andato incontro il sistema italiano – e che secondo molti sarebbero l’origine del nostro declino – è noto: la celebre riunione a bordo del Britannia, lo yacht della regina Elisabetta, a bordo del quale, il lontanissimo 2 giugno del ’92 si sarebbero decise le privatizzazioni delle grandi aziende pubbliche italiane alla presenza dei rappresentanti di grandi banche d’affari (Goldman Sachs), mentre la lira subiva gli attacchi degli speculatori internazionali (Soros) e il Paese, ancora alla vigilia di Tangentopoli, era sotto la pressione dello stragismo mafioso. Su questo episodio si sono esercitati quasi tutti i dietrologi, quindi è inutile insistervi troppo. Tuttavia, resta un punto fermo: le privatizzazioni si risolsero in una svendita del patrimonio pubblico effettuata nel grave vuoto politico seguito a Mani Pulite e con una preoccupazione minima dell’interesse nazionale. Cosa c’entra Guarino in tutto questo? Il professore napoletano ricoprì, come già detto un dicastero delicatissimo nel primo governo Amato: fu l’ultimo ministro, tra l’altro, ad avere la delega, fino a qualche anno prima ambitissima, alle Partecipazioni statali. In questo ruolo, il celebre accademico prestato alla politica elaborò un piano di privatizzazioni basato sulla ricapitalizzazione e sulla rivalutazione delle aziende pubbliche per prevenire la svendita, desiderata (e di fatto invocata) da molte lobby finanziarie, italiane e non.
Il piano fallì, sia perché Guarino non aveva in realtà la forza politica per sostenerlo (cioè il dicastero delle Finanze, da lui chiesto invano) sia per l’opposizione di vari colleghi di governo, che sfociò in una polemica feroce, dovuta anche a un colpo di scena passato in secondo piano nel trambusto di quel periodo: una fuga di notizie sui progetti governativi divulgata da Adnkronos, di cui l’ultimo ministro alle Partecipazioni statali riuscì a discolparsi per un pelo.
Guarino non ebbe più ruoli politici diretti. Ma ciò non gli impedì di esercitare pressioni: ad esempio, i tentativi, anch’essi naufragati, di dar vita a un nuovo partito moderato dopo la fine del primo governo Berlusconi e durante il breve interregno di Lamberto Dini, un’esperienze senz’altro breve ma tutt’altro che effimera.
Il resto è storia nota: l’Italia entrò nella moneta unica praticamente eterodiretta e quasi supina. E nessuno alzò un dito contro l’approvazione del fiscal compact, introdotta con un regolamento, cioè una procedura che non prevedeva l’approvazione di tutti gli Stati membri dell’Ue. Col senno del poi si può affermare che introdurre l’obiettivo del pareggio di bilancio e del contenimento del deficit al di fuori della discussione democratica sia stato a dir poco una forzatura che è pesata molto sulla vita di intere popolazioni.
A questo punto occorre chiedersi: cosa c’è di sovranista in questo libro che, attraverso la biografia di un accademico illustre come Guarino, filtra delle critiche non irrilevanti e non infondate alle modalità di ingresso dell’Italia nella moneta unica?
Con un po’ di malignità si potrebbe azzardare che in Alto Tradimento Bottai continui il discorso intrapreso con il precedente Non chiamatelo Euro (Mondadori, Milano 2015).
Ma la critica all’euro, soprattutto la critica ai meccanismi che lo hanno creato, non è sovranismo. Al contrario, può esprimere, come nel caso di Guarino, il desiderio di un’Europa più politica e quindi democratica. E non sembra, almeno a seguirne gli interventi pubblici, che Bottai sia un antieuropeista o, come usa dire, un euroscettico.
Alto Tradimento, dice a chiare lettere l’autore, è «una testimonianza», preziosa perché resa da un protagonista di primo piano.
Quindi un invito alla riflessione spassionata che, a quasi trent’anni da quegli avvenimenti ingarbugliati e dal loro contorno tragico, è quantomeno doverosa.
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